Jake Epping è un giovane professore di inglese che vive in una tranquilla cittadina del Maine. E’ divorziato e non ha bambini, non ha dunque nessun legame affettivo che, più di ogni altra cosa, lo tenga legato al suo piccolo pezzo d’America del ventunesimo secolo.
E’ proprio per questo che il vecchio Al, gestore di una famosa tavola calda locale, gli propone una missione: tornare indietro nel tempo – grazie ad un buco spazio-temporale che si trova nel retro del suo ristorante – per salvare la vita al presidente Kennedy.
Con JFK vivo, infatti, Al è convinto che gli Stati Uniti godranno di un benessere duraturo e, soprattutto, si ritireranno dal Vietnam, evitando così che migliaia di vite vengano perse nei meandri del Sud Est asiatico.
Jake non ci pensa due volte e, seppur un po’ intimorito, attraversa il buco e si ritrova nel 1958, prendendo una nuova identità e lanciandosi in quella che sarà una straordinaria avventura, umana, amorosa e dai risvolti sociali e politici imprevedibili.
L’idea può sembrare banale e la sinossi non brilla certo per originalità – si pensi ai numerosi particolari narrativi rubati senza troppi problemi ad altri famosi viaggi nel tempo – eppure, nonostante le premesse, l’incredibile capacità di narrare di King la spunta ancora una volta: il maestro del brivido tende la mano al lettore, lo invita ad accomodarsi e gli racconta una storia, semplice semplice ma mai noiosa né stucchevole, che si trasforma presto in una specie di thriller dai risvolti socio-politici.
Ogni piccola vicenda quotidiana è raccontata con un fiume di parole, immagini, considerazioni del protagonista (l’io narrante) e particolari, e ogni azione, sia essa di personaggi principali o secondari, è descritta con estrema ricercatezza: è proprio qui che viene fuori il talento del racconta-storie, un talento, in questo caso, davvero straordinario, che conferisce all’opera un potenziale visivo unico.
La ricerca storica, grazie anche ad un team di ricercatori che ha aiutato l’autore dall’inizio alla fine del romanzo, è impeccabile e i personaggi, i cui risvolti psicologici sono, come al solito, delineati con cura, risultano assolutamente verosimili, per non dire – è il caso di Harvey Lee Oswald, dei suoi famigliari e di tutti quelli che gli girano attorno – addirittura reali. Niente di nostalgico, comunque, 22/11/1963 non è il classico romanzo americano che incensa il lattaio che porta le bottiglie di vetro, le gonne larghe che svolazzano a ritmo di rock’n’roll, la brillantina e i bar con il jukebox, tutt’altro: severa e puntigliosa, l’opera di King rilegge con rancore quelli che erano gli anni della segregazione razziale, della dominazione maschile e del perbenismo bacchettone, traendone un giudizio non sempre positivo.
Ad una certa età forse le idee possono venire un po’ meno, ma se la capacità di raccontare una storia, per quanto banale essa possa essere, rimane, o addirittura migliora col tempo, allora possiamo stare tranquilli: certi autori non moriranno mai!
Stephen King, 22/11/1963, Sperling & Kupfer, 2011, pp. 762.