A più di duemila anni dall’opera di Platone, cosa è rimasto del sentimento d’amore espresso nei discorsi del Simposio? Il regista Andrea de Rosa e un gruppo di giovani attori sono partiti da questo interrogativo per sondare il territorio aspro e pericoloso dei sentimenti umani.
Un uomo entra in scena e sembra rivolgersi al pubblico, ma le domande che pone (sul tema dell’amore e della sessualità) non sono realmente indirizzate a chi gli sta di fronte, infatti procede con un nuovo interrogativo, senza aspettare una risposta dallo spettatore. Con ogni probabilità lui stesso è il primo destinatario dei quesiti formulati. Le incalzanti domande poste sono tratte dai Comizi d’amore di Pasolini e possono essere viste come una nuova possibile applicazione del metodo socratico, rivolto al singolo individuo così come ad intero gruppo o a una massa indefinita di spettatori alla radio o alla televisione.
Gli attori avanzano, si fermano in riga davanti agli spettatori e si guardano l’un l’altro. Si sono radunati per un simposio durante il quale le più illustri menti si possono confrontare sul tema dell’amore. Ovviamente a intervenire sono solo le più illustri menti maschili perché, come è più volte ripetuto nel corso dello spettacolo, “non c’è posto per le donne nel Simposio”.
Eppure qui le donne ci sono e si fanno sentire. Una ragazza in abiti punk-rock si spoglia e rimane a petto nudo, autentica amazzone della società contemporanea; un infermiera si pianta sul fondo della stanza lasciando che vengano proiettate sul suo vestito rosa pallido delle immagini tratte da film pornografici (immagini che però risultano troppo sfuocate e indefinite per essere un efficace effetto scenico); un’altra ragazza è seduta in primo piano, vestita con un abito di pelle scura e occhiali da sole come un personaggio di Matrix, e guarda nel vuoto mentre mangia patatine, quasi stesse compiendo un ripetuto atto sacrale (l’unica consacrazione valida agli occhi dei figli del nuovo millennio pop?). Una ballerina con i capelli raccolti crea discorsi d’amore a partire da sdolcinate canzoni di musica leggera, sfociando solo alla fine nel disperato grido di Jim Morrison “Love me two times, I’m goin’ away!”. L’ultimo personaggio femminile invece si lascia legare non si sa se per essere vittima sacrificale o se per partecipare ad un rapporto sadomaso, oppure per entrambe le cose allo stesso tempo.
Le facce pulite da brave ragazze e i corpi delle giovani attrici sono però privi di qualsiasi carica erotica e contrastano con i gesti e con le parole pronunciate, accentuando in questo modo la mancanza di realismo probabilmente ancor più di quanto fosse nelle reali intenzioni del regista. Le diverse figure che compongono il gruppo femminile si manifestano una dopo l’altra in modo quasi fantasmagorico nello spazio bianco illuminato al neon. Risultano così come una serie di spettri capaci di scardinare le certezze maschili profetizzate senza indecisioni al pubblico.
Se i personaggi femminili possono essere benissimo considerati come i fantasmi erotici che scuotono le fantasie degli uomini (senso avvalorato anche dalla scelta dei costumi, la maggior parte dei quali ricalcano stereotipi da film porno), questi ultimi appaiono vittime delle loro fobie, solo apparentemente sicuri, ma in realtà costantemente impegnati in giochi di sguardi per cercare una reciproca complicità cameratesca. Appena infatti le argomentazioni delle ragazze arrivano a scardinare le certezze maschili non si tenta un contraddittorio, ma si censura il problema tornando a ripetere “non c’è posto per le donne nel Simposio”, quasi fosse un leitmotiv dello spettacolo.
La drammaturgia di Federico Bellini, composta a partire dalle domande degli attori stessi, fa letteralmente a pezzi l’originale greco. L’opera di Platone diventa in questo modo un pretesto per variazioni sul tema, tra citazioni colte (Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene, Jacques Lacan) e popolareggianti (Battisti, Capossela, i Beatles e i Doors).
La conclusione è tragica: oggi l’uomo può permettersi di interrompere la ricerca dell’altro da sé. L’amore nella sua versione 2.0 non consiste più nel trovare l’altra metà di sé per ricomporre nell’unione sessuale una qualche unità primordiale (così Platone nel Simposio aveva fatto argomentare Aristofane), ma si può concludere nel singolo individuo, chiuso in camera davanti ad un sito porno.
Gli uomini hanno dunque rialzato la testa per sfidare gli dei. Se nel mito infatti Zeus aveva punito gli umani tagliandoli a metà, quando erano ancora uniti a coppie e tondi, per l’arroganza di aver tentato la scalata all’Olimpo pensando di essere pari ad un dio, oggi l’uomo contemporaneo ha nuovamente fatto lo stesso peccato di superbia, prendendo per buono e perpetuando all’infinito un senso di eterna adolescenza che lo fa sentire assoluto ed immortale.
Ciò che probabilmente manca oggi è un poeta che canti in modo altrettanto forte le colpe dell’uomo. Il lavoro di De Rosa infatti rimane un buon pretesto per parlare di un problema attuale, ma il risultato finale si rivela purtroppo privo di una qualche forza immaginifica o simbolica e si traduce così in uno sterile atteggiamento (intellettualmente) masturbatorio, non molto diverso da quello che gli artisti vorrebbero denunciare.
STUDIO SUL SIMPOSIO DI PLATONE – In scena al Teatro delle Passioni di Modena dal 9 al 18 ottobre 2012
regia di Andrea De Rosa, drammaturgia di Federico Bellini
_ Interpreti Giulia Briata, Antonio Gargiulo, Eleonora Giovanardi, Leonardo Lidi, Anna Gaia Marchioro, Martina Polla, Matthieu Pastore, Filippo Quezel, Massimo Scola, Annamaria Troisi
_ direttore tecnico Robert John Resteghini
_ Emilia Romagna Teatro Fondazione
_ Durata: 1 ora e mezza
_ www.emiliaromagnateatro.com