Incontro con Yuval Avital

L'opera "Samaritani" presentata in prima mondiale al MiTo

E’ uno degli eventi più attesi del festival MiTo di quest’anno la prima mondiale di Samaritani, nuova opera dell’israeliano Yuval Avital, nella triplice veste di compositore, regista ed esecutore, che andrà in scena martedì 21 settembre al Teatro Nuovo di Milano. Sarà “un viaggio iconosonoro alla scoperta di una cultura millenaria”, come recita la locandina dello spettacolo, e, trattandosi di una cultura “in via d’estinzione” – sono circa 700 i samaritani rimasti ad oggi – la curiosità è quantomeno d’obbligo. Abbiamo intervistato Yuval Avital, personalità eclettica, chitarrista e compositore, per saperne di più su questo imponente progetto a più dimensioni – visiva, sonora, teatrale, spirituale – che porta a Milano uno spaccato “vivo” della cultura e della musica del popolo samaritano.

Perché la scelta dei Samaritani, e soprattutto perché sarà un viaggio “iconosonoro”?

Negli ultimi anni la mia ricerca creativa si è orientata verso il dialogo tra i linguaggi di tradizione orale e la creatività contemporanea. Ho trovato risorse antiche, “vergini”, mai eleborate in passato e che, per questo motivo, potevano raccontare in modo “non filtrato” gli stati emotivi di una civiltà: amore, lutto, sacralità. Chiaramente si tratta di una modalità di trasmissione non raffinata, grezza, ma con una sorta di energia totale che colpisce al cuore. Il popolo samaritano è un caso estremo. Si tratta del più antico popolo vivente del Mediterraneo: ha mantenuto un’identità culturale, musicale, rituale nonostante le forti influenze dei linguaggi culturali intorno a sè. I numerosi popoli di quelle zone (Gerusalemme e Tel Aviv sono adiacenti all’area samaritana, ndr) vivono a stretto contatto fra loro. Per cui non si tratta di una civiltà ermetica, chiusa, ma che vive in una realtà contemporanea, calata nel mondo reale. La mia ricerca ha cercato di mettere questi mondi uno di fronte all’altro.
_ Un linguaggio iconosonoro, per rispondere alla seconda parte della domanda, utilizza simboli e stati strutturali servendosi sia del suono, sia dell’immagine in modo non differenziato. Il concetto di base è quello dell’opera wagneriana, dell’opera d’arte totale, che per altro si trova traslata anche nel cinema: linguaggio visivo, suono e gesto. In Samaritani la multimedialità teatrale diventa “live”. Basti pensare che la colonna visiva dell’opera copre 80′ (di immagine) su 90′ minuti di spettacolo. Sarà un documentario astratto con scenografia: senz’altro un’esperienza unica. Prima domanda, 50 pagine?

I tuoi lavori sono spesso basati sulla ricerca di linguaggi trasversali in grado di mettere in comunicazione arte, cultura, antropologia. Hai un modello compositivo di riferimento, una musa ispiratrice o un principio-guida?

Non c’è un principio guida. Ogni creazione comincia con terrore, paura, perché si tratta di qualcosa di unico e solo. Un linguaggio utilizzato per un caso non funziona per un altro. In un certo senso tutti sono i miei maestri, mi considero una spugna che assorbe qualunque liquido incontri: Ligeti, Weill, non vorrei estremizzare ma anche Francis Ford Coppola e Pina Bausch. Ogni opera richiede una ricerca di suono, ma è come mettere da parte il grano in caso di carestia…ci vuole tanta pazienza e un lavoro profondo per attuare una sintesi tra mondi molto lontani fra loro.

Samaritans può essere considerata un’evoluzione di Kolot o si tratta di opere-sorelle?

Ogni opera per me è una evoluzione in sè. Kolot è stata una prova, una sfida: dieci creazioni diverse messe insieme e collegate attraverso archetipi emotivi. Samaritani è una cosa diversa, una tradizione sola. Diciamo che se in Kolot il punto di partenza erano le diverse tradizioni con l’obiettivo di darne un quadro soddisfacente, qua non c’è la pretesa di narrare la realtà samaritana. Potevo narrare il mio viaggio, quello sì. Poi Kolot era il testamento di uno stato poetico, surreale. Samaritans è diventata l’opera più autobiografica che abbia mai scritto: un diario di viaggio. In Kolot sono partito dal mondo indigeno per collegarlo al contemporaneo. In Samaritans sono partito da Milano, dove vivo, e ho iniziato un viaggio di investigazione che mi ha dato la possibilità di avvicinarmi alla cultura samaritana più di quanto mi sarei aspettato. Sono diventato un testimone…

Per la realizzazione di Samaritans tu e Nicola Scaldaferri siete stati sul monte Gerizim, in pellegrinaggio nei luoghi di culto samaritani, entrando in contatto con il mondo samaritano di oggi. Cosa vi ha lasciato quest’esperienza e che spunti creativi ti ha dato?

Beh, per un israeliano l’esperienza di salire sul monte Gerizim in territorio palestinese è stata un misto di emozione e paura… alla fine per me è significato attraversare un territorio ostile. Ma le bellezze naturali di quel luogo, i campi di olivi che baciano un terreno arido, i bambini vestiti di bianco che ci sono venuti incontro con i cappelli rituali rossi mi hanno fatto sentire incredibilmente vicino emotivamente. Mi sono sentito subito accolto: questi canti, questa realtà mi ha avvolto in un grande calore. Qualsiasi ricerca, non solo etnomusicologica, che abbia a che fare con esseri umani provoca sempre l’imbarazzo di confrontarsi con qualcosa di reale. Avevo già iniziato a comporre l’opera ma mentre ero lì ho cambiato gran parte dei testi, la scenografia si è capovolta, e il video lo conferma: ci sono persone vere che parlano, cantano, pregano, danno testimonianza. Poi il tutto è inserito in un contesto poetico più ampio. Ti assicuro che assistere a una preghiera come la yom mikrata, cioè il canto integrale della Torah, per 17 ore, con 400 uomini, per me è stato come cercare di mettere un mare in un secchio. Umiltà e proporzione: ecco quello che ho provato. Spero di portare anche solo un’eco lontana di qualcosa di veramente indescrivibile.

Come si concilia una tradizione musicale antichissima, come quella samaritana, con le tecnologie audiovisive che sono parte integrante di Samaritans?

Non c’è nessun contraddizione. Nuova tecnologia per me significa nuova orchestrazione. I linguaggi visivi sono strumenti in grado di esprimere archetipi. L’espressione dell’emozione poi è il regno dell’arte. La multimedialità darà la possibilità fantastica agli spettatori di entrare in un mondo molto più ampio e in qualche modo anche di creare sfumature fra i mattoni diversi della costruzione: il canto samaritano, l’orchestra, l’immagine. Ci tengo a dire però che non si tratta di arrangiamenti di canti, ma l’unione di concetti diversi, presi dal mondo del teatro, schermi, quasi nuvole di suono. La tecnologia può addolcire questo incontro: il suono diventa parte delle voci, degli strumenti, ma anche dello stesso pellegrinaggio. Perfino le pecore che piangono creano un lamento che fa parte della partitura iconosonora. Il pubblico è avvolto nel suono, spazializzato, creando un’esperienza a più dimensioni. Addirittura anche il palco parla: il sacerdote in scena canta in duetto virtuale col padre. Sarà un gioco di specchi continui tra reale e visivo, documentario e teatro. I canti mistici di Mosè, e la loro elaborazione sulle dune, diventano come simboli archetipici di uomini che pregano. Per me questa di Samaritani è la sfida dell’affiancamento, a tutto tondo.

La musica samaritana è essenzialmente vocale, maschile e di matrice religiosa. Ci sono punti di contatto tra le tecniche di ornamentazione del testo sacro e il canto gregoriano occidentale?

A livello immediato no: la tradizione vocale samaritana non somiglia a niente di occidentale. Forse somiglia più a musica contemporanea spinta che ai canti gregoriani. Ma a un livello più profondo c’è un rapporto di evoluzione tra il gregoriano e il samaritano: nel secondo l’elaborazione di tricordi creano qualcosa di molto simile ai famosi “archi” melodici gregoriani. Lì l’arco finisce in armonica chiusa, qui rimane aperto, “in tensione”…

Una tensione di tipo tonale?

Non proprio. C’è una sintonia complementare semmai con la musica contemporanea e con quella modale. Ovviamente quello samaritano è un trattamento più complesso, non riconducibile ai sistemi della musica occidentale.

Martedì prossimo Milano sarà trascinata in un mondo molto lontano. Temi la reazione del pubblico?

Io sono un tipo di persona, di artista, che fa e lavora per il pubblico. Non faccio compromessi pur di piacere, ma provo a dare coerenza al pubblico. Le persone che saranno aperte a cogliere qualcosa di nuovo, di diverso, apprezzeranno, non il mio lavoro artistico ma la bellezza intrinseca del mondo che provo a raccontare. Preferirei infatti che il pubblico non fosse preparato. Samaritani non è stata scritta per il pubblico della musica. L’opera è dedicata a mia nonna, che è scomparsa quest’anno e alla quale ero molto legato. L’intento, come in Kolot alla quale lei ha assistito, è quello di scrivere qualcosa che anche lei avrebbe potuto capire.

L’opera andrà in tournée?

Credo proprio di sì. Ci sono delle date in Europa, ma ancora in via di definizione.

Intanto un grande in bocca al lupo per il debutto di martedì e a rivederci presto.

Crepi il lupo. Grazie a te.

MILANO – Martedì 21 Settembre 2010 – ore 22:00
Samaritani
_ Opera di Yuval Avital
_ Viaggio iconosonoro alla scoperta di una cultura millenaria
_ Prima esecuzione assoluta
_ Coro dei Samaritani
_ Benny Tsedaka, direttore del coro
_ Yuval Avital, composizione, regia, chitarra classica, elettronica
Per maggiori informazioni:
http://www.mitosettembremusica.it/
_ http://magaglobalarts.com/
_ http://www.yuvalavital.com/