LA DISCESA DI ORFEO di Tennessee Williams

Non convince la messinscena di Elio De Capitani

Il regista Elio De Capitani affronta per la terza volta l’opera di Tennessee Williams (vi erano già stati Un tram che si chiama desiderio e Improvvisamente l’estate scorsa), con questa messa in scena che strizza l’occhio al meta-teatro, in maniera piuttosto gratuita.

Se lo chiede lui stesso nelle note di regia, e la domanda riecheggia insistentemente durante l’interminabile visione dello spettacolo attualmente in scena al Teatro dell’Elfo – Puccini di Milano: “Cosa mi attrae ancora di questo autore amato e odiato con la stessa intensità […] che mi fa inveire cento volte ad ogni messinscena per quel suo lirismo sentimentale da romanzo d’appendice […]?”
Compaiono infatti in La discesa di molti degli elementi tipici dell’immaginario dell’autore americano, in questa piéce così poco rappresentata e conosciuta: la gretta, ignobile provincia del profondo Sud, il contrasto tra le aspirazioni vitalistiche dei personaggi principali e l’ambiente sociale stritolante, stretto, feroce e intollerante, la seduzione dei sensi, salvifica ma solo per un istante, prima dell’inevitabile tragedia che schiaccia qualunque tentativo di ribellione.
Materiale altamente melodrammatico, nell’accezione più negativa del termine, che nel testo viene salvato da una calibrazione delle componenti drammaturgica e della tenitura dei dialoghi, e che in teatro – se ben compreso e saldamente maneggiato – può essere raffreddato da un rigore di messa in scena assoluto e da una regia intelligente.
Nulla di tutto ciò accade però nella messa in scena di De Capitani, che per portare sul palco l’intreccio fiammeggiante delle anime perse del vagabondo musicista Val, dell’infelice Lady e dell’isterica esuberante Carol sceglie prima di tutto un’inutile cornice meta-teatrale.
Gli elementi più lampanti di questa decisione si notano nella declamazione brechtiana degli attori delle didascalie dei loro gesti, con un esito a volte comico che stona molto col tono complessivo del dramma, ma anche nell’ambientazione in uno spoglio capannone industriale adibito a sala prove, illuminato suggestivamente dalle spartane luci di Rocco Colaianna.
Si registra allora una sorta di distacco e di incomprensioni tra quelle che sono le intenzioni dell’autore della drammaturgia, che cerca di raffreddare il materiale, di inibirne le derive sentimentali con ogni mezzo possibile, e gli interpreti che, a parte alcuni casi, si buttano a capofitto, scivolando a ruzzoloni su un terreno accidentato e viscido com’è quello segnato da Williams. Sono sopratutto le prove dei due protagonisti Ribatto e Crippa a non convincere, roboticamente appassionato lui, e goffamente ferita lei, mentre si segnala la prova felina del terzo lato del triangolo, la Russo Arman.
Non aiuta nemmeno la durata eccessiva di quasi due ore e mezza, che purtroppo rende l’esperienza difficilmente sopportabile fino alla fine, quando il finale apertamente tragico fa calare il sipario su una messa in scena che sarebbe meglio dimenticare, magari cullati dalla note di chitarra di Alessandra Novaga, la musicista sempre sul palco.

_ traduzione di Gerardo Guerrieri
_ drammaturgia e regia di  Elio De Capitani
_ scene e costumi di Carlo Sala
_ con  Cristina Crippa,  Elena Russo Arman, Edoardo Ribatto,  Luca Toracca, Cristian Giammarini,  Corinna Agustoni, Sara Borsarelli, Elio De Capitani, Debora Zuin, Marco Bonadei, Carolina Cametti e Alessandra Novaga (chitarra elettrica)
_ luci di  Nando Frigerio
_ suono Giuseppe Marzoli
_ produzione Teatro dell’Elfo
_ Durata: 140 minuti