In un Texas percorso da corrieri della droga e da criminali di ogni tipo, Llewelyn Moss (Josh Brolin) trova per caso due milioni di dollari, abbandonati tra i cadaveri di uno scambio di eroina finito male. Appropriandosi del denaro, l’onesto cowboy e veterano del Vietnam si attira contro i cecchini degli spacciatori e il “cane sciolto” Anton Chiguruh (Javier Bardem): un assassino senza remore e privo di qualsiasi freno morale. Anche lo Sceriffo Bell (Tommy Lee Jones) si mette sulle tracce di Moss per cercare di aiutarlo, tirandolo fuori da una situazione palesemente più grande di lui. Lewelyn, però, è testardo, orgoglioso e, soprattutto, odia perdere. Comincia così una caccia mozzafiato che ha i tratti di una danza macabra tra gatto e topo, dove i ruoli si mescolano e confondono in un’enorme pozza di sangue.
Adattamento dell’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, l’ultimo lavoro di Ethan e Joel Coen è preciso e “perforante”, proprio come un colpo sparato da breve distanza. Se Albert Camus fosse vissuto al giorno d’oggi e avesse ambientato La Peste in Texas, difficilmente avrebbe potuto fare di meglio. Il punto di partenza, come sempre accade nei loro film, è un genere cinematografico e il suo smontamento quasi chirurgico. Sotto il bisturi creativo dei Coen, stavolta è finito il western, da tempo terra di conquista per rivisitazioni e ripensamenti di vario tipo. Al contrario di altre pellicole, però, Non è un paese per vecchi non lo snatura nella storia e nelle premesse: sembra solo volerlo trasportare in un contesto come gli anni ’80, dove gli spacciatori hanno degnamente preso il posto dei più classici banditi. Il paesaggio e gli elementi di base ci sono tutti, ma i conti cominciano presto a non tornare. Il cattivo (un Javier Bardem davvero da brivido) va filosofeggiando sul destino, mentre lascia dietro di sé scie di cadaveri in pieno stile splatter. Uccide i committenti, usa armi improprie e non sembra spinto né dal denaro, né dall’odio nei confronti della legge. Il suo comportamento è difficile da spiegare persino attraverso la logica del cacciatore, tanto che tutti finiscono per definirlo semplicemente psicopatico. La sua lucidità e consapevolezza, però, fanno pensare più a una sorta di catastrofe naturale, alla “peste bubbonica”, appunto, a cui si accenna nel corso del film. La sua figura così intrigante, in fondo, schiaccia quasi completamente quella dello stanco e disilluso Sceriffo Bell, ipotetico rappresentante di un “Bene” che non riesce più a stare al passo coi tempi. Tra i due si muove Llewelyn, eroe piuttosto ambiguo, mosso soprattutto dalla convinzione narcisistica di essere il miglior giocatore in campo.
Le dinamiche tra questi personaggi, oltre a essere sottili e ricche d’ironia, portano con sé una carica dirompente nei confronti delle convenzioni del genere. Nonostante l’abbondanza di prede e cacciatori, infatti, nessuno scontro risolutivo porta alla fine dell’inseguimento. Niente mani sulla fondina, niente sguardi in cagnesco o duelli sulle strade arse dal sole texano: i momenti di maggior tensione sono tutti in notturna, mentre la sfida finale tra Moss e Chiguruh viene addirittura sottratta alla vista del pubblico. Lo spietato assassino e lo Sceriffo Bell non si trovano mai neppure l’uno di fronte all’altro e praticamente non si affrontano, quasi a significare la totale incompatibilità dei loro mondi.
In questo caos di ruoli e di generi, viene quasi da pensare che “i vecchi” (gli old men) del titolo siano proprio gli spettatori, o, per lo meno, chi si aspetta di trovare il classico scontro tra Bene-Male e le regole del western, del thriller o qualsiasi altro tipo di punto fermo. Così come “vecchio” è chi crede ancora che i miti fondanti di un paese, come l’Ovest e la frontiera, possano portare all’happy ending, o almeno alla vittoria definitiva di una delle parti. Nel film, senza dubbio, vecchio è il sogno dello Sceriffo: quello genuinamente americano dell’uomo puro e coraggioso che porta nel mondo una fiammella di ordine e di speranza. Come fa un sogno del genere, pieno di titubanze e incapace di affidarsi al caso, a competere con un incubo che dilaga senza freni, sospinto da una coerenza disumana e dall’incrollabile fiducia nell’indifferenza del destino? Chi si siede al suo tavolo da gioco deve essere pronto a puntare tutto (compresi i propri principi) e ad affidarsi al caso, poiché nella logica schiacciante dell’azzardo è impossibile trovare un’intrinseca giustizia nella sorte, come non se ne trova nel risultato di un “testa o croce”. Tanto che, tra un lancio di moneta e l’altro, il mondo sembra piombato in un torpido tramonto. La natura bellissima e sconfinata osserva impassibile i piccoli uomini, che si trascinano sanguinanti nelle loro tane come animali feriti. I sogni un po’ rattrappiti invecchiano, ma sopravvivono, a latere della follia. La partita, dunque, non si chiude, e continua nella vita reale.