Scritto dall’ambasciatore della Repubblica di Serbia e Montenegro a Cipro, questo “apocrifo” dadaista è una corsa sul sellino di una bicicletta dalla costruzione della Torre di Babele fino ai giorni nostri.
Nella nostra strana epoca piena di apocrifi, misteri e patacche di tutti i generi che rimbalzano dalla carta stampata all’etere, il romanzo del serbo Svetislav Basara ci offre un’ottima prova di questo genere letterario, ma in chiave dadaista e paradossale.
Notissimo in patria, ma anche in Francia, dove sono state tradotti cinque suoi romanzi negli ultimi sette anni, ambasciatore della Serbia e Montenegro a Cipro, Svetislav Basata è uno degli scrittori più prolifici della Serbia (la sua opera per ora conta oltre venti volumi). Nato a Bajina Bašta nel 1953, è considerato giustamente, e non solo in patria, uno dei talenti più autentici della letteratura serba degli ultimi due decenni. La traduzione di Fama o biciklistima del 1988, rappresentava per la traduttrice una vera e propria sfida: rendere in un’altra lingua la prosa dell’autore, così ricca di giochi di parole e di allusioni a una realtà lontana sia dal punto di vista cronologico che geografico. L’ottimo lavoro di Maria Rita Leto rende con precisione, ma anche con fedeltà allo spirito, quella corrosiva ironia e a quella passione per il paradosso e l’assurdo che rappresenta la cifra stilistica dell’autore.
Il libro è un collage di testimonianze storiche apocrife sulla presunta setta dei Ciclisti Rosacroce, che esisterebbe fin dai tempi della Torre di Babele. L’autore ripercorre la storia svelando il suo “lato oscuro” sulla sella di una bicicletta dai tempi del regno di Carlo il Brutto, passando per il tenebroso medioevo, con gli immancabili roghi di presunti “eretici” e la Santa Inquisizione, saltando al XIX secolo, con le argute deduzioni di Sherlock Holmes, fino a giungere al secolo successivo, attraverso la corrispondenza apocrifa di Sigmund Freud. Nel ‘900 si scatena la vena surreale e visionaria dell’autore. Il complotto della setta ormai minaccia l’ordine mondiale.
Le teorie di un certo Kowalsky, poeta, narratore e saggista, nonchè membro della setta, giungono all’orecchio di Stalin. Da questo momento il complotto assume dimensioni planetarie e ogni ipotesi sul futuro diventa possibile e culmina in una visione apocalittica illustrata con precisione nel saggio Follia dell’architettura – architettura della follia, premessa teorica del progetto del grande manicomio: “L’ospedale è concepito come uno stato e tutti i suoi cittadini sono solo potenzialmente pazzi. (..) L’ideologia ufficiale dello stato è la psicoanalisi”.
L’assurdo politico e intellettuale del totalitarismo rappresenta il bersaglio preferito di Basara e la lettura di questo libro può essere considerato un utile esercizio di “decostruzione” di tutte le utopie che hanno segnato il ‘900. Segnalo infine una breve appendice con le bellissime poesie scritte da Jozef Kowalsky nel corso del suo misterioso e importante viaggio tra Mosca, i Balcani e l’Anatolia per giungere a quella Babilonia dove si presume fosse stata fondata la misteriosa setta.
Con Quel che si dice dei Ciclisti Rosacroce Basara dimostra di meritare un posto sulla scena letteraria mondiale all’ombra di grandi maestri come Borges e Beckett, (tra i suoi maestri tuttavia dobbiamo menzionare un grande serbo, come Borislav Pekić, autore di quel meraviglioso Vangelo apocrifo che è Il tempo dei miracoli recentemente edito da Fanucci).
Svetislav Basara, Quel che si dice dei Ciclisti Rosacroce, 2005 Milano, Edizioni Anfora, p. 222, 12 €