Da Wikipedia: “La vite senza fine è così definita perché la sua rotazione ha il solo scopo di trasmettere il movimento”. Una rotazione ne genera un’altra; il movimento si trasferisce; tutto si trasforma, nulla si distrugge. Un titolo così ingannevolmente perfetto è raro da trovarsi: “Vite senza fine” è un augurio di immortalità e, al contempo, un fenomeno della meccanica.
Essenzialmente, è un principio della fisica ciò che sembra regolare l’esistenza degli abitanti del Villaggio San Marco e degli operai di Porto Marghera e del Petrolchimico: i protagonisti di questo spettacolo. Così come l’ingranaggio infinito della vite in questione genera un continuo movimento che si ripercuote sull’intera chincaglieria meccanica, ogni esistenza umana si riflette su quella degli altri: Gigio Brunello, in Vite senza fine mette in scena, o meglio, mette in “vita”, il concetto di comunità. Il turnista, il meccanico, il postino, l’infermiera, il maresciallo, l’elettricista, il prete, l’ingegnere: vite di paese, forse anche da strapaese, ma che effettivamente si intersecano l’una con l’altra in quel clima perso nel tempo di quando ci si conosceva un po’ tutti.
E poi ci racconta anche un’altra cosa: il lavoro pratico. Vite senza fine è un bell’amarcord, elegia di un mondo analogico, antecedente e opposto al digitale: un mondo nel quale il lavoro significava “mani”, senza falsa retorica dietrologista, e la risoluzione di un problema significava “smontare-aggiustare-rimontare”. Non algoritmo.
Eppure non è solo una bella nuvola di nostalgia. Scritto da Gigio Brunello per la regia di Gyula Molnar, lo spettacolo è la storia di un posto vero, di nomi e cognomi, e “di conoscenze tecniche, della manualità, della capacità inventiva e artigianale degli operai di Porto Marghera del secolo scorso”, come scrive Antonino Marra. Non a caso Vite senza fine è stato presentato al Centro Candiani di Mestre in concomitanza della mostra fotografica Mestre Novecento. Il secolo breve della città di terraferma: il racconto di quella Venezia che è cresciuta sul continente, che non ha le calli, né le gondole, né i canali, ma strade, condomini, fabbriche, gente.
Il risultato è uno spettacolo incantevole. Gigio Brunello esce in scena con il suo “Teatro degli oggetti”: insieme a lui reciteranno i pupazzi, i modellini delle case, della chiesa, degli alberi. C’è la statua del santo, grande più degli altri – ovviamente. C’è perfino il cane, e abbaia. Parlerà lui per tutti loro e con loro, in un clima di devozione immensa, di amore tenero e affezionato verso quel micromondo di piccoli omini che muove con le sue mani, illumina sapientemente, quasi accarezza.
Il pubblico lo guarda e lo osserva in un clima rapito: siamo tornati indietro nel tempo, a giocare con le bambole? O ci stiamo raccontando un pezzo della nostra storia? Azzardiamo una risposta: entrambe le cose. Il che è possibile, se a farlo ci sono un abile narratore, un testo lieve e commovente, una regia attenta, e degli oggetti bellissimi. Più belli che se fossero uomini veri, più veri degli uomini veri: di cui mantengono solo la parte migliore. Perché ci raccontano un mondo pulito.
VITE SENZA FINE- Spettacolo teatrale sui saperi operai.
Di e con Gigio Brunello. Teatrino della Marignana . Regia di GYULA MOLNAR.
In scena al Centro Culturale Candiani di Mestre (Venezia) il 26 ottobre 2007.
Foto: © Tommaso Saccarola