Non sentivamo parlare di lui da un considerevole lasso di tempo, ma, facendoci gradita sorpresa, Yeo Siew Hua ritorna dietro la macchina da presa per il suo secondo lungometraggio, dopo In the house of straw nel 2009 e un decennio dedicato esclusivamente al corto sperimentale, finendo di fatto per prendersi Locarno 71, risultando a mani basse il regista dell’opera più centrata, almeno finora, prima della pausa del mercoledì, dell’intera sezione del concorso internazionale.

La “casa” di In the house of straw non è nient’altro che la “terra” di A land imagined. In un contesto socio-economico tale da avviare una sorta di processo di appropriazione territoriale invasiva da parte di una Singapore sempre più prepotente nei confronti del territorio malese, indonesiano o cambogiano, Wang e Lok finiscono in un turbine che li porta prima ad allontanarsi e poi ad incontrarsi, sempre consapevoli l’uno dell’altro fino a sovrapporsi. Il primo è un operaio cinese sottopagato, il secondo un detective privo della voglia di vivere, legati soltanto dall’insonnia e da una donna.

Film densissimo in grado di miscelare in poco più di cento minuti dramma sociale, un noir sfuggente e una riflessione sull’identità del suo paese, A land imagined offre uno spaccato dell’alienazione in cui vivono tanto i lavoratori irregolari, costretti in cattività, senza la possibilità di avere una vita o di disporre dei propri documenti, quanto i comuni autoctoni, sempre perduti in questa realtà inafferrabile e mutevole che alla fine non può essere la terra di nessuno. A partire proprio dalla terra di nessuno da cui inizia il possente incedere nello scenario econimico che conta della città-stato, metafora di uno sradicamento totale dell’appartenenza, si ottiene il suolo, il fondamento del film: la terra che si compra e si vende. Nove anni fa c’era una casa di paglia con tre porcellini dentro che non potevano far altro che constatare la penuria di mattoni con cui costruirne una nuova, finendo in quella spirale discendente che ben conosciamo, ora ci troviamo in una struttura completamente differente, una struttura biunivoca che forza, apparentemente, una propria conformazione a una narrazione lineare.

Wang svolge la sua personale ricerca, quella che lo porterà a scoprire il cadavere dell’amico bengalese Ajit, solo dopo, però, essere rimasto vittima di un incidente. Proprio questo è l’episodio che gli permette di sviluppare lo consapevolezza necessaria a interrogarsi su se stesso, una pausa dal lavoro che prima anestetizzava la sua coscienza. Ora che la fatica non lo costringe più al riposo notturno, vaga insonne per le strade e gioca online in un internet-café, dove conosce Mindy (la Luna Kwok della rivelazione Kaili Blues di Bi Gan, poi bruciatosi a Cannes di quest’anno con un’opera seconda di puro manierismo), una donna con cui instaura l’unico rapporto sincero della sua vita, che lo trascina a queste feste dove con la musica si riesce finalmente a evadere dalla macchina-Singapore. Egli poco tempo dopo sparisce dopo un misterioso contatto con un videogiocatore amico, e il detective Lok, dal canto suo, si mette sulle sue tracce in una ricerca vana già in partenza.

Yeo Siew Hua documenta sia l’estraniazione sociale sia quella spirituale, trascinando lo spettatore in una dimensione prettamente filmica dove non solo gli spazi si sovrappongono, ma anche i tempi fanno lo stesso. Lok non arriva a cercare Wang dopo la sparizione di questi, ma al contrario i due protagonisti vivono ai lati opposti di una barricata onirica, sono l’uno il sogno dell’altro. La rivelazione arriva a entrambi dal videogame; un videogame che il regista trasforma in un sogno che avanza penetrando e violando gli spazi, permettendo a ognuno di rivelare attraverso la comunicazione virtuale la spiegazione all’altro, come vasi comunicanti. Il braccio di Wang non è mai guarito, è ancora fasciato quando parla in videochat con Lok alla fine, dunque non c’è stata una conclusione, sono due modi di essere che si sostengono l’uno con l’altro, interdipendenti fra loro.

L’indagine di Lok su Wang è analoga alla ricerca di Ajit da parte di Wang, ognuno cerca in un gioco di rifrazioni la propria risposta, e la vicenda gira tutta soltanto quando Wang capisce che dormire è la soluzione, e per farlo, una volta irrimediabilmente sveglio, deve concedersi a un musa tanto grezza quanto eterea, perdendosi, smettendola di cercare. L’indagine di Lok “fa il lavoro sporco”, mette in luce le condizioni schiavistiche dell’economia semi-sommersa singaporiana, e rivela come quell’alienazione sia ormai onnipresente, la cifra integrante dell’arcipelago in questo momento storico. Essere l’uno il sogno dell’altro significa essere coscienza dell’altro, Wang è il prodotto di questo sradicamento violento per Lok e il medesimo discorso è valido anche invertendo l’ordine degli addendi. L’altra “coppia dimensionale” è quella insonnia-Mindy, indicata da uno dei due uomini all’altro come l’unica via di fuga. Non a caso lei è la figura chiave del film e il fattore che funge da transizione delle molteplici variazioni stilistiche della regia di Yeo Siew Hua, che come cambia Singapore tra notte e giorno, o da un lato all’altro della città, cambia i movimenti e le lenti della sua mdp, gestendo alla perfezione i colori e i riflessi, sia con le luci al neon che con quelle naturali in un caleidoscopio cromatico mai fisso, sempre cangevole. La rappresentazione cambia cercando di afferrare i cambiamenti di Singapore, senza mai riuscirci, ovviamente, ma regalandoci una regia curata al dettaglio che ci guida all’interno di un affresco dove gli assi a tratti si perdono e tutto diventa, per una volta, incredibilmente ovattato.

A land imagined è un film che accorpa a una riflessione di grande forza un lato estetico mostruoso, in grado di tenere assieme una serie di fattori con una facilità e una leggiadria che vale la pena ricordare. Complesso e sognante, generoso nei momenti d’elaborazione dell’immagine e perfettamente coerente con se stesso, labile e delicato come un’idea, compatto e potente come un macigno: questa è la perfetta sintesi di A land imagined, se si menziona anche quel carattere pessimista – soavemente pessimista – nell’ipotizzare come unica soluzione alla perdita di sé un’ulteriore alienazione. Se per il prossima lavoro Yeo Siew Hua ci farà aspettare meno di dieci anni saremo più felici, ma finché questi sono i risultati vale la pena riscoprire la virtù della pazienza.