Dopo sette anni dall’ultimo lungometraggio presentato a Venezia, Dharma Guns, il poliedrico F. J. Ossang torna dietro la macchina da presa con 9 Doigts, noir metafisico e angosciante presentato in concorso a Locarno che affonda le sue radici nel cinema europeo di inizio Novecento.
In una notte di pioggia Magloire – Paul Hamy – corre a perdifiato per evitare un controllo della polizia. Nella fuga si imbatte nel cadavere di un uomo, nel cui cappotto trova una grossa somma: questo denaro però attira i malviventi complici del defunto, che lo catturano e mettono dinanzi a una scelta: venire ucciso o entrare a far parte dei loro. Per aver salva la vita Magloire dovrà mischiarsi ai criminali e imbarcarsi a bordo di una chiatta che trasporta plutonio, con la paura che uno spietato assassino, 9 Dita, li rintracci.
Il film, girato in pellicola 35mm interamente in bianco e nero , è debitore all’estetica del cinema muto e più precisamente all’espressionismo tedesco: l’utilizzo di mascherini neri che incorniciano i volti, la recitazione affettata e drammatica – all’epoca connessa alla necessità di supplire alla mancanza del sonoro – più vicina a quella teatrale che a quella oggi detta «cinematografica», i costumi semplici – occhiali da sole, impermeabili, passamontagna – ma grotteschi che trasfigurano gli interpreti, le frequenti dissolvenze al nero, la costruzione labirintica e claustrofobica di certe scenografie, riportano alla stagione della Repubblica di Weimar. I dialoghi a botta e risposta evocativi e oscuri sono l’ultimo tassello di questo mosaico che a partire da premesse razionali si spiralizza nell’incubo e nell’irrazionale, al pari di quanto accade nelle visioni di Wiene o Murnau.
La suddivisione in capitoli marca l’entropia del sistema, testimoniata dal decesso dei membri della banda uno dopo l’altro – di cui le radiazioni probabilmente non sono l’unica causa. Il senso d’angoscia, percepibile già nella prima sezione – quella più propriamente “di genere”, in cui si scorge l’influenza del poliziesco alla Melville – su cui incombono l’ombra del fantomatico 9 Dita del titolo e il morboso comportamento dei personaggi femminili, si fa opprimente a seguito della sequenza in negativo che precede l’imbarco sulla nave, dove le ossessioni dei singoli individui verranno a convergere. Come dichiarato dal regista, si tratta di un viaggio all’Inferno, di cui il mare è figura: non lascia intravvedere alcun confine, nasconde creature e forze leviataniche, isola. E proprio l’approdo finale del protagonista rappresenta forse l’unico bagliore nell’atmosfera di pervasiva decadenza: dai pochi frammenti di discorso che alludono alla realtà circostante, si evince infatti che il nostro pianeta ha attraversato una qualche catastrofe ambientale, che interi continenti di spazzatura solcano gli oceani – un involucro fantascientifico comune in altri termini anche a Le Trésor des îles Chiennes (1990) – e che il carico di plutonio è un carico di morte di cui i fuorilegge sono traghettatori, come una sorta di Caronte.
Per quanto pecchi di un eccesso di intellettualismo e presenti un montaggio troppo arbitrario, 9 Doigts resta un’opera affascinante dal punto di vista estetico e con una fotografia pregevole. Ossang consegue il suo scopo, ossia quello di condurre lo spettatore a confrontarsi con la paura più recondita e atavica dell’essere umano: l’ignoto.