La settimana della critica della 70esima edizione del Locarno Festival prosegue con la prima del secondo film di Rok Biček, già noto per Class enemy.
Matej già a quattordici anni deve far fronte a una difficile situazione in famiglia, dovendo confrontarsi con l’eredità di una possibile malattia mentale. Non vi sono miglioramenti negli anni successivi, e quando Matej diventerà padre ad appena vent’anni, dovrà reagire sia all’abbandonato da parte della fidanzata due mesi dopo la nascita della figlia Nia, sia alla battaglia legale per l’affidamento della stessa.
Il film é un documentario dalla struttura particolare, che spazia in un periodo di circa nove anni (dai 14 ai 23 del protagonista) documentando le fasi salienti della sua vita sin alla decisione definitiva riguardo alla situazione dell’affidamento. Il paragone con Boyhood é immediato, trattandosi sempre di stralci di una giovane vita dalla pre-adolescenza alla maturità con tutti i cambiamenti che ne conseguono, tuttavia Biček non si perde dietro al mero riprendere gli eventi con cieco rigore pur di assicurarsi la continuità, e decide di raccontare la storia a modo suo (partecipando direttamente , non da ultima cosa, anche al montaggio) sfruttando tutti gli strumenti che normalmente l’etichetta di “documentario” precluderebbe. Va avanti e indietro nel tempo senza remore, passando con disinvoltura dal Matej neo-papà a quello quattordicenne, scivolando poi quasi senza farsi notare nel racconto della nuiva storia romantica con una seconda donna e il loro discorso su eventuali altri figli.
Per certi versi abbiamo un’opera molto stringente (camera a mano che segue i protagonisti sempre e comunque, cogliendo le loro emozioni anche nell’assoluta intimità per poi spostarsi sulle piccole abitudini della vita quotidiana della famiglia, senza spazio per le interviste dirette), che si va a configurare come un inno dedicato alla vita, in questo caso esemplificata da Matej: la primissima inquadratura del film, brutale nella sua normalità nel mettere (letteralmente) a nudo un parto, senza lesinare sul sangue, sulla placenta e sullo sporco ci regala, appunto, il momento più violento e assieme più felice di tutto il film, che poi lascerà spazio a un’odissea personale. Biček non segue nessuno schema se non quello del flusso emotivo, lasciandosi andare all’associazione di idee per quanto riguarda il filo conduttore del suo film, passando freneticamente dalla battaglia legale per l’affidamento e gli alimenti ai momenti di difficile giovinezza perché gli interessa dare un ritratto sincero della vicenda, dandone un quadro quanto più possibile complesso e vitale, consapevole che non è certo possibile trattare tali tematiche con semplicità o pressapochismo.
Dunque Družina parla di vita, della famiglia, dei deboli e forti legami che si vanno a creare al suo interno: senza dubbio molto interessanti sono quelli con il padre pateticamente burbero e il fratello disabile, ambigui ma duraturi. Siamo di fronte a un bel ritratto familiare, completo e capace di raccontare una storia di affetti assieme allo sporco, tenendo assieme l’aspetto puro e genuino con quello più sporco, ributtante.