Realizzato con un budget irrisorio ma mosso da un’idea folgorante, One cut of the dead (2018) è il primo lungometraggio realizzato da Ueda Shinichiro nella triplice veste di regista, sceneggiatore e montatore, un b-movie più di nome che di fatto che a partire dal trito spunto dei morti viventi porta ad alcune interessanti considerazioni sul cinema e sul visibile.
Il film si apre con il momento clou di un horror di bassa lega, con uno zombie che sta per divorare quella che in vita era la sua ragazza. La scena è interrotta dalla voce del regista – interpretato da Takayuki Hamazu –, un perfezionista che pretende più emozioni dai suoi “attori”. Passa un po’ di tempo però e gli zombie arrivano davvero, seminando il terrore e decimando la troupe. Scopriamo quindi che tutto il film nel film non è altro che un film a sua volta, ambiziosa commissione di un’emittente televisiva.
Portando alle sue estreme conseguenze l’espediente della mise en abyme, Ueda alterna tre differenti registri registici in accordo con le specificità di ciascun piano della narrazione: sequenze sgranate e barcollanti da camera a mano per il primo; macchina a spalla frenetica per la seconda; modo di ripresa tradizionale per la terza, in cui la mdp diventa espressione dell’istanza narrante e descrive la genesi del progetto televisivo.
One cut of the dead si guadagna da subito la simpatia dello spettatore con un umorismo immediato fondata su gag nonsense, ripartendo da queste nelle sezioni successive per costruire un umorismo più raffinato: le papere del film girato dal regista – stiamo qui parlando del personaggio interpretato da Takayuki – sono infatti dovute a incidenti di percorso ben motivati la cui soluzione porta a un risultato più divertente per noi che guardiamo ma peggiore per la qualità del film girato dai protagonisti. Ueda trova così il pretesto per mettere in bella mostra il lavoro dei truccatori, gli effetti speciali arrangiati – manichini e sangue finto – e l’artificiosità della recitazione, salvo poi rimettere tutto in discussione nell’ultima mezz’ora, che costituisce il piano della realtà a partire dal quale si genera la spirale di follia e comicità.
È proprio in quest’ultima sezione che il regista – qui intendiamo Ueda – inizia a dialogare con la tradizione, prendendo in giro il pallino dei film maker per l’arte anche in circostanze dove l’arte è fuori posto; lo stesso titolo – in originale Kamera wo tomeru na!, ovvero «Continua a girare!» – costituisce una prima, ironica critica per l’ossessione per il piano sequenza di certo cinema contemporaneo, come se da esso derivasse una più autentica rappresentazione del reale. Reale che invece, nel film di Ueda, è collocato al margine esterno della spirale: è la parte montata, recitata e ripresa in maniera tradizionale a fornirci la chiave di lettura metacinematografica.
Reinventando uno spunto semplicissimo di minuto in minuto, One cut of the dead è sicuramente un esperimento interessante ma non così tanto da riuscire ad emergere nel panorama della selezione di questo FEFF. Una possibile spiegazione del sorprendente riscontro ottenuto potrebbe risiedere nelle sue particolari circostanze di proiezione: collocato a conclusione della giornata centrale del festival, ha saputo accattivarsi gli spettatori grazie alla sua vena comica e citazionistica, sollevando gli animi di un pubblico prostrato da una rosa di film anche molto seri e impegnati e ponendosi dunque come antitesi a questi ultimi.