Concorso – Venezia 64
Dodici uomini delle più varie estrazioni sociali si ritrovano riuniti in una giuria popolare che deve decidere di un caso delittuoso apparentemente chiarissimo e già risolto, nella Russia di oggi: l’imputato è un giovane e sfortunato ceceno, che avrebbe ucciso il padre adottivo, un ex-ufficiale russo che lo aveva salvato da piccolo dall’inferno della guerra caucasica ed accolto a casa come fosse un figlio suo. Il verdetto sembra scontato, ma a differenza degli altri undici membri della giuria un uomo insinua il “ragionevole dubbio” che non tutto sia così scontato come sembra. Uno ad uno i giurati cambiano idea ed inizia una rocambolesca rimonta degli innocentisti sui colpevolisti…
L’uomo non è… un’anguria: questo il paradossale punto di partenza del “giurato dubbioso”, l’unico che non abbia fretta di tornare alle proprie occupazioni private liquidando in dieci minuti di formalità cartacee il proprio impegno di giurato. L’unico che dia un’altra chance a un “mostro bastardo ceceno”, un ragazzo che in quanto appartenente all’etnia in decennale contrasto con gli interessi espansionistici moscoviti dovrebbe essere per definizione un poco di buono ed una vittima sacrificale. Il giurato che cercherà di salvargli la vita avviando un lento processo di convincimento non violento sugli altri (non conosciamo il nome dei 12 uomini, solo la loro occupazione) all’inizio vuole solo “parlare un po’”, chiede semplicemente di discutere il caso: la parola, la discussione, lo scambio democratico è da lui (uno straordinario, come del resto tutti gli altri interpreti, Sergej Makovetskij) proposto in alternativa ad un pilatesco e affrettato lavarsi le mani, e la sua filosofia dello scambio dialogico, del possibilismo democratico, dell’integrazione dei pensieri, ma soprattutto della salvezza del derelitto di turno si fa pian piano strada, molto faticosamente e con alti e bassi da cardiopalma, nel superficialismo della condanna disinteressata proposta dalla maggioranza.
12 Angry Men (in Italia La parola ai giurati) fu l’esordio folgorante di Sidney Lumet, uscì nel 1957, prodotto dal protagonista Henry Fonda (in quel caso il giurato discordante) e ricevette l’Orso d’Oro a Berlino, anche se non fu un successo di pubblico; Nikita Mikhalkov a tutti gli effetti si riallaccia piuttosto al testo teatrale di partenza di Reginald Rose (da lui già affrontato sulle scene russe) e non effettua assolutamente un’operazione di remake. Sceglie questa storia tesissima e penetrante quasi come passatempo e zeppa per le riprese momentaneamente bloccate del seguito del suo Sole ingannatore, ma quasi per caso e per necessità sforna un grande film. Tanto più se si considera l’accozzaglia poco convincente che era il suo ultimo parto, quel Barbiere di Siberia (1998) inzeppato di star hollywoodiane e di boria post-zarista da padrone del cinema di tutte le Russie. Toccato dalla grazia dell’arte della regia, di cui è comunque un innegabile maestro, Mikhalkov si fa piccolo, più umile, si riserva sì una parte nobile e risolutiva nel pool straordinario di attori (è il presidente della Giuria che proporrà una soluzione finale più umana), ma si propone come inaspettato critico di Putin e lascia spazio ai suoi meravigliosi compagni d’avventura: uno interpreta un becchino arrapato da una stupenda bellezza esotica, un altro è un vecchio ebreo che ne ha viste tante nella vita e non si lascia scomporre dalle accuse razziste di un tassista, anch’egli con il suo personale, triste vissuto personale; altri ancora sono artisti, uomini medi o ricchi nuovi russi della ormai globalizzata patria di Dostojevskij, qui evocato e ispiratore per certa spiritualità slava che si interroga sulle questioni ultime con il tipico surplus di pathos e partecipazione fra il fatalista e il provvidenziale.
Il film potrebbe spaventare sulla carta: se vogliamo descriverlo come una diatriba giudiziaria lunga più di due ore e mezza, tutta incentrata sulla forza di convincimento dei dialoghi e giocata in un’unica location (la palestra di una scuola), non andiamo lontano dalla verità. Ciò che invece poi eleva potentemente questo film, lontano mille miglia dalla pellicola di genere (che sia essa il court-movie o il film sulla guerra) è una densità di recitazione al calor bianco che si sposa perfettamente con una padronanza di regia costantemente, intelligentemente al servizio degli intenti del film. Si consideri per esempio che, esclusi alcuni flashback ambientati sui luoghi degli scontri in Cecenia, per la gran parte del tempo la scala dei piani si muove saggiamente fra i primi piani dei protagonisti e i totali dell’ampia palestra in cui sono (come in un novello conclave laico) chiusi a chiave ed in fondo imprigionati i membri della giuria, senza quasi contatti con l’esterno. Ciò comporta che tutti i dodici attori debbano essere in certo modo sempre “presenti”, sia sulla scena (magari defilati, o impegnati in gesti apparentemente insignificanti), sia al livello dell’attenzione interpretativa. Mikhalkov ha infatti svelato di non aver sempre indicato preventivamente alla sua troupe quale sarebbe stata l’inquadratura del momento, di modo da costringerli ad un continuo chi va là psicologico che non fa altro che compattare l’ensemble dando vita ad una sorta di stato di grazia collettivo che compatta gli interpreti e permette loro di “passarsi la palla”, di trasmettersi a turno il ruolo di “conduttore verbale”, attraverso la confessione intima e gli aneddoti esistenziali che buona parte di essi hanno a disposizione quale banco di prova per dimostrare la propria bravura.
La situazione della Russia è affrontata da Mikhalkov con tutta una varietà di rimandi più o meno diretti che rendono palpabile la viva coscienza e la pressante preoccupazione del regista moscovita per la sua patria ancora fluttuante fra le inefficienze ereditate dal burocratismo sovietico, l’inadeguatezza del sostanzialmente anarchico animo russo nei confronti della Legge codificata, ma anche la capacità di questo stesso animo di superare i limiti della convenzionalità e della Lettera morta in un coraggioso slancio spirituale che recuperi lo Spirito dei rapporti umani.
Vero è che tale discorso al limite del metafisico (e non sveliamo ulteriori addentellati prettamente spiritualistici nella speranza che il premio veneziano porti una distribuzione italiana) può essere visto come risibile commercio di luoghi comuni dell’Ottocento romantico e realista russo, e forse alcune adesioni totali e non-mediate alla dimensione ideale potrà far storcere il naso al disincantato spettatore occidentale. Fatto sta che Mikhalkov ci consegna un quasi imprevedibile saggio di tolleranza e apertura mentale nella forma di un virtuoso e denso testo filmico, che è sì “teatrale”, ma non nell’impostazione registica, quanto piuttosto in senso positivo nell’utilizzo funzionale dei “dettagli superflui” (una scatoletta di sigarette, una smorfia del volto, un attrezzo ginnico, una rima sdolcinata) che senza pretendere di assurgere al livello metaforico, né tanto meno a quello simbolico restituiscono la ricchezza del reale nella sua irriducibilità rispetto alla strutturazione artistica; o ancora è teatrale nelle smorfie degli attori, nella modulazione artefatta e volutamente incerta delle loro voci, nel disporsi asimmetrico dei corpi rispetto alla varia attrezzeria di scena, negli spazi relativamente ampi ma in fondo castranti di un unico palco, di un unico campo di battaglia mentale, la palestra nella quale i dodici sono costretti a causa degli annosi ritardi strutturali degli organismi amministrativi che non hanno fatto in tempo ad approntare una sistemazione più consona.
Questo 12 è un film che merita più di una visione, per cogliere una massa (ordinata e funzionale però) di particolari che sorprendentemente lo tengono ben lontano dal cinema “di sceneggiatura” o dagli incastri freddi e perfetti degli script con “agganci” furbi per spettatori distratti. Bisogna vederlo e rivederlo per cogliere i rimandi più o meno nascosti alla storia di un paese: si vedano le figure di Gorbacov e El’cyn suggerite nel sogno di apertura o l’insistenza dei personaggi nel chiamarsi “compagni”, ancora quindici anni dopo la caduta del muro. Alla faccia della ormai insopportabile (e chi scrive si prende la piena responsabilità dell’affermazione) invasione di film cinesi ed orientali in tutti gli angoli della Mostra, la cui stessa massa abnorme ci costringe a boicottarli a priori nonostante l’ammirazione per l’egregio lavoro peraltro svolto da Marco Muller e dai suoi collaboratori, questa è una incoraggiante testimonianza di resurrezione: registica per un Mikhalkov che iniziava a preoccuparci, umana per quanto riguarda lo sviluppo della stessa storia narrata, testimonianza che porta a sperare in un cinema di corpi messi in gioco con pienezza, sentimenti non omologati e arte filmica non leziosa e fine a se stessa.
L’uomo non è un’anguria, l’uomo è un uomo; parliamone, alla faccia di Ang Lee.
Titolo originale: 12 razgnevannyh muzhchin
Nazione: Russia
Anno: 2007
Genere: Drammatico, Poliziesco
Durata: 153’
Regia: Nikita Mikhalkov
Sito ufficiale:
Cast: Nikita Mikhalkov, Sergey Makovezkij, Mikhail Yefremov, Sergei Garmash, Viktor Verzhbitsky, Aleksei Petrenko, Valentin Gaft
Produzione: TriTe
Distribuzione:
Data di uscita: Venezia 2007