Romania 1987. Una finestra sbarrata; una tavola imbandita, da sparecchiare; un contenitore pieno d’acqua dove un pesciolino rosso fatica a muoversi.
È l’incipit del lungometraggio del regista rumeno Cristian Mungiu, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2007. Simboli e metafore di uno stato, la Romania, durante gli ultimi giorni di quel comunismo chiuso, circoscritto nelle sue leggi, dove non c’è spazio per le scelte personali.
Otilia (Anamaria Marina) e Gabita (Laura Vasiliu) sono due studentesse universitarie che abitano insieme in una residenza universitaria di Bucarest, un luogo dove le varie ragazze si confrontano e aiutano reciprocamente, dal prestito di indumenti e denaro, allo spaccio di sigarette e prodotti illegali.
Un mondo tutto al femminile solidale e unanime, che il regista scruta e indaga con la sua macchina da presa lungo i corridoi e le stanze della residenza universitaria; ognuno con le proprie storie di sofferenza e fatica, come quella di Gabita che è incinta e vuole abortire ed Otilia pronta ad aiutarla. Ed è proprio Otilia che ci accompagna verso questa terribile scelta, nei vari momenti della sua preparazione.
Come in un thriller, Otilia percorre il triste e desolato paesaggio della città di Bucarest alla ricerca di una camera d’albergo economica, luogo in cui avverrà l’aborto segreto; e sempre lei incontrerà per prima il signor Bebe (Vlad Ivanov), un indegno e disonesto medico, che ha preteso una stanza d’albergo per fare abortire illegalmente Gabita, dietro compenso.
In quella stanza d’albergo si compie il dramma interiore di queste due donne e il potere laido, osceno, assassino e perverso dell’uomo. Bebe non vuole solo soldi ma anche una prestazione sessuale. A sacrificarsi sarà ancora Otilia, pur di aiutare l’amica.
Aborto, malattia, lutto, ma anche amicizia e solidarietà; il coraggio di riuscire a tirare avanti nonostante tutto.
Afferma giustamente il regista Cristian Mungiu: “La mia è soprattutto una storia di scelte personali, non solo sull’aborto e neppure sul comunismo. Volevo far passare un’idea: le persone devono prendere decisioni responsabilmente. La gente vede le cose in modo troppo astratto. Per questa ragione molte donne muoiono e noi non ci pensiamo mai. È vero, nel 1966 l’aborto era illegale e questo anche per aumentare la popolazione; e così per chi lo praticava era un atto di ribellione. In quegli anni sono morte 500.000 donne.
Per questa motivazione, la sequenza dell’aborto è minuziosa e precisa, non trascurando nessun particolare. Con la macchina da presa fissa su di lui e poi su Otilia che si prepara a pagarlo col suo corpo, mentre Gabita ascolta l’orrendo piacere nonostante l’acqua del bagno scorra vorticosamente.
Quello dell’aborto è un vero e proprio rituale, lento e accurato: l’apertura della borsa, i guanti, le garze, il cotone, l’alcool, la siringa e la spirale. Il corpo di Gabita è sul letto disteso e l’occhio del regista si sofferma sulle sue gambe. Infine uno stacco sullo sguardo ferito, perso e smarrito di Otilia, sulla quale il regista continua le altre scene.
Lasciar Gabita per la cena del fidanzato è quasi una necessità. Il pianto, l’amarezza e la buia notte l’accompagnano lungo il tragitto. Quella cena è una sofferenza, un incubo: isolata dagli adulti e non capita dal suo uomo scappa via. Una corsa disperata la porta in albergo da Gabita. Ha funzionato: il bambino è fuori 4 mesi, tre settimane e due giorni (titolo del film).
Otilia lo prende, lo porta con sé e inizia questo suo percorso notturno, affannato, turbato, disperato e senza meta verso gli inferi. Entra in un palazzo e lo getta in un cassonetto, come aveva chiesto Bebe. Ritorna in albergo ma Gabita non c’è. È al ristorante per mangiare. Otilia la raggiunge.
Dietro un paravento si sta festeggiando un matrimonio indiano con danze e musiche. Otilia sconvolta si siede di fronte a lei, mentre mangia carni condite. Lo sguardo di Otilia è esterrefatto ed inorridito e alla fine si rivolge a noi, come se volesse riflettere sul passato (Gabita) e guardare al futuro (lo sguardo rivolto a noi).
Quello di Cristian Mungiu è un cinema alla Dardenne, pluripremiati a Cannes, che scuote le coscienze; esistenze chiuse in vicoli ciechi, ma che attraversano strade buie con qualche lampione.
Un film di Cristian Mungiu
Genere Drammatico
Colore, 113 minuti