Il premio Oscar Tim Robbins torna alla regia di un lungometraggio dopo vent’anni – il suo ultimo lavoro era Il prezzo della libertà del 1999 – e decide di farlo a Venezia 76, ma questa volta si tratta di un documentario e non di un film di fiction, anche se Tim Robbins ha dichiarato che l’ispirazione originaria che ha dato vita in seguito anche a quest’opera è nata durante le riprese di Dead man walking.

Robbins è rimasto impressionato dal sistema carcerario statunitense e dalle profonde differenze che intercorrono tra la realtà delle prigioni e la loro rappresentazione nei media, e in particolare dal modello economico che le rende aziende con lo scopo primario di fatturare e non strutture in grado di occuparsi della rieducazione del detenuto, scivolando così verso una concezione retributiva e non emendativa della pena, come invece i codici di quasi ogni stato di diritto dichiarano. Nel 2006 l’attore e regista con la sua compagnia chiamata “The actors’ gang” ha iniziato un progetto a lungo termine che si occupasse di programmi riabilitativi per i detenuti della prigioni di massima sicurezza della California. 45 second of laughter è uno dei risultati di questa attività, un semplice racconto di cosa succede durante gli incontri e come può aiutare i detenuti.

45 second of laughter non è quel genere di film per cui si spendono troppe parole, di fatto si tratta di una compilation di momenti che sono un film più che altro per occasione e contingenza, una testimonianza documentale più che un documentario, ma non per questo ne bisogna sminuire il valore, dal momento che si tratta comunque di capire come funziona veramente e senza pregiudizi o particolari target politici una realtà mediaticamente stravolta. Robbins si fa aiutare da qualche collaboratore e da un teacher-artist condannato  a otto anni di carcere in libertà vigilata per avvicinarsi ai detenuti a livello emotivo, e si propone di offrire loro delle migliori prospettive facendo in modo che possano momentaneamente evadere con la mente e migliorarsi come persone, accettando il prossimo.

Le regole di base prevedono che non si faccia menzione dei crimini per i quali si è stati condannati, che le classi debbano essere interrazziali in modo da mischiare le bande originariw di appartenenza e che alla fine della “lezione”, a qualsiasi costo, si concluda all’unisono ridendo per gli eponimi 45 secondi – perché è scientificamente provato che tale azione, anche se forzata, libera endorfine e fa bene alla psiche. Le altre attività mirano a migliorare le capacità comunicative dei detenuti, a sviluppare un’autocoscienza emotiva che permetta loro di capire meglio se stessi e gli altri, a liberarli dalla tensione della prigione con tutti i suoi rischi nel presente e nel futuro.

Per lo più si tratta di giochi da campo estivo, team building, attività fisiche o passatempi che prevedono tanto movimento e altrettanto parlare, a cui si aggiungono yoga, stretching o attività più elaborate con ausili tecnici. L’attività più interessante di tutte, nonché quella che riesce a tirare fuori la sfera intima di ogni detenuto e la prova della Commedia dell’Arte, in cui ciascun carcerato si dipinge il volto (non preoccupatevi, non ha niente a che fare con Bronson) e prende le sembianze di uno dei personaggi tipici, giocando, divertendosi e tornando bambini, lasciando uscire quello che in una prigione di quarto livello deve rimanere celato perché l’ambiente è duro, violento e con buon fiuto per paura o insicurezza. Ora i detenuti imparano a fidarsi gli uni degli altri, a oltrepassare i confini stabiliti dai clan di appartenenza per aiutarsi come in una comunità chiusa, passando del tempo di qualità, sia esso in prospettiva (per chi sta scontando gli anni) o soltanto atto a impreziosire la giornata (per gli ergastolani).

Il programma lascia inoltre estrema libertà ai detenuti, venire, non venire, smettere e via dicendo, così come non dà punti di riferimento ma fa in modo che i prigionieri se li trovino in autonomia con la spinta dei collaboratori. Si parla di energia in generale durante le lezioni, chi vuole la interpreta come religione, altri ancora come “energia mistica” (qualsiasi cosa voglia dire), il punto è che Tim Robbins crede veramente in questo programma e ha voluto riportarne gli esiti al grande pubblico per svelare una faccia nascosta di umanità, e lo fa senza chiedere nulla in cambio; al netto di tutto, del tono un po’ ingenuo-positivista e degli aspetti new age sul piano filmico, della natura non puramente cinematografica del progetto più in generale, rimane una bella esperienza di gratuità da vedere.