Mentre sullo sfondo i rifugiati invadono le strade di Calais, in una raffinata dimora borghese vive la famiglia Laurent. Vivere non è il verbo adatto per descrivere la condizione esistenziale dei ricchi Laurent, rinchiusi negli angusti seppur luminosi spazi del loro esilio volontario. Esilio che è distanza fisica ed emotiva da tutto ciò che è vita.
I Laurent sono Georges (Jean-Louis Trintignant), anziano sull’orlo della demenza, la figlia Anne (Isabelle Huppert), manager dell’impresa di costruzioni di famiglia, il figlio Thomas (Mathieu Kassovitz), divorziato e padre della tredicenne Eve (Fantine Harduin) e il riottoso nipote Pierre (Franz Rogowski). L’asettico equilibrio familiare sembra barcollare a causa di due accadimenti: il trasferimento a villa Laurent di Eve, la cui madre è ricoverata in ospedale in seguito a un misterioso avvelenamento, e la morte di un operaio in un cantiere dovuta all’incuria di Pierre.
L’incipit del film è affidato alle riprese video di uno smartphone dietro il quale scopriremo la presenza dello sguardo tutt’altro che innocente di Eve che filma la madre intenta alla sua routine serale nel bagno. Presenza non è il sostantivo adatto per raccontare lo sguardo di Eve e degli altri personaggi, occhi spenti che comunicano l’assenza di emozioni, amore, empatia, pietà. Occhi distanti, come la macchina da presa, anch’essa posta a distanza dai personaggi, di cui talvolta non cogliamo le parole, perché il rumore di fondo si sovrappone ad alcuni dialoghi, come ne Il fascino discreto della borghesia di Buñuel. Protagonisti come osservatori estranei delle proprie vite, che non conoscono le possibilità della sofferenza. Il dolore è assente, agli spettatori stessi è negato il privilegio dell’empatia. L’effetto è straniante, l’inconsistenza dei personaggi, spogliati dell’umanità, rende comica la loro tragedia.
La morte permea ogni istante di una vita che i Laurent hanno rinunciato a vivere, una morte che sembrano non temere perché la vivono ogni giorno. La morte dei rapporti umani, ridotti a patetici scambi virtuali, della famiglia, dell’economia, dell’intera classe borghese. La morte della speranza. La morte della componente vitale della violenza. La morte delle nuove generazioni, che non uccidono più i padri ma si limitano a filmarne il declino, come accadrà nella potente scena finale. Poesia e disincanto di un ironico lieto fine.