Anche questa 56esima edizione del festival ceco è giunta a conclusione, ha dichiarato i suoi vincitori e ci permette di fare alcune considerazioni finali.

Dopo l’edizione interlocutoria del 2021, un po’ emergenziale e comunque in ritardo rispetto al periodo abituale (per una volta si svolse ad agosto inoltrato), la kermesse ceca è tornata alla normalità logistica con un’abbondante presenza di critici da tutta Europa, che hanno finalmente potuto scambiare liberamente pareri, imbastire progetti, incontrare registi al di là delle limitazioni pandemiche che l’anno scorso ci avevano costretto a girare per la città, entrare nelle sale e persino fare la doccia con un simpatico nastrino al polso che testimoniava di essere a posto con le prescrizioni anti-Covid.

Anche la sezione Industry del Work in Progress è tornata totalmente con modalità in presenza, e ha agevolato appunto quel fruttuoso scambio di idee e scintille creative che Karlovy Vary è sempre stato. Quest’anno, va detto, la proverbiale spensieratezza ceca ha avuto totalmente la meglio (il paese fu uno di quelli che nell’estate del 2020 vide un’improvvisa impennata di nuovi casi, in quanto la fretta di potersi godere una birra estiva nei locali aveva fatto abbassare un po’ troppo presto le cautele e la soglia dell’attenzione).

Dunque, senza alcun problema siamo potuti tornare a tossirci in faccia come se nulla fosse mai successo negli ultimi due anni, anche nelle salette più microscopiche; speriamo nelle prossime settimane di non dovere raccontare di qualche cluster post-festivaliero.

Sadaf Foroughi

La qualità del concorso principale è stata generalmente buona, con una varietà di approcci e di provenienze dei concorrenti che ci fa valutare il parterre del Globo di Cristallo come ampiamente sufficiente. La Giuria principale, in cui spiccavano due produttori sudamericani (Benjamin Domenech e Fiorella Moretti) cui va il merito di aver collaborato con autori come Lucrecia Martel, Carlos Reygadas o Amat Escalante, ha portato il premio principale fuori dall’Europa.

Il Globo per il miglior film è andato infatti all’iraniano Summer with Hope, e ciò è cosa buona per diversi motivi. Il film è valido e ben congegnato, ma che l’autrice sia una donna, Sadaf Foroughi, che affronta con delicatezza e senza eccessi una storia di persecuzione omofoba, non fa che aumentare ulteriormente il valore civile dell’opera. La Foroughi è una sceneggiatrice e produttrice nata a Tehran, ma con studi occidentali (fra Francia e Stati Uniti) e basata ormai da anni in Canada. Ella narra con una buona progressione narrativa, una fotografia atmosferica e misteriosa, ed equilibrando segreti e svelamenti lungo il corso del film, di una vicenda adolescenziale: Omid è un giovane talento del nuoto agonistico, ma vari problemi familiari e organizzativi gli impediscono di prendere parte ad una importante gara giovanile. Farà così squadra con un giovane allenatore, che evidentemente non lo aiuta solo per interessi sportivi. Il rapporto affettivo fra i due si sviluppa fra confidenze, allenamenti ed ellittiche complicità (di cui comunque non ci vengono mostrate “prove certe”), finché non esplode nella piccola comunità locale la “sacra rabbia” di familiari e moralisti che perseguitano i due ragazzi fino alla tragedia finale. Film che ti striscia sotto pelle piano piano, che prende una svolta inaspettata a metà del suo percorso, e che certamente avrà goduto della particolare urgenza dell’argomento trattato per far contare il suo peso sulla bilancia della Giuria. Ma che abbia vinto un film iraniano (forse a nostra conoscenza il primo) di tematica almeno parzialmente ascrivibile all’universo LGBT è cosa sicuramente meritevole, non è assolutamente un furto e non ci dispiace.

Dovete venire a vederla

Il Premio Speciale della Giuria è andato ad un piccolo film spagnolo che è una chicca: Dovete venire a vederla del madrileno Jonas Trueba è un’operina di
un’oretta scarsa che si muove con leggerezza fra i racconti morali di Rohmer e il metacinema. Due coppie di amici si incontrano in una casa di provincia (quella del titolo che “deve essere vista”) dove tenderebbero a creare un locus amoenus e un buen retiro dalla foga della capitale, e finiscono a parlare dei massimi sistemi, innescati dalla lettura del saggio Devi cambiare la tua vita del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, incentrato sull’antropologia del “co-immunismo”. Il tutto viene fatto scivolare con cenni ora da commedia borghese, ora di una decameronica fuga dalla peste della routine metropolitana, con un afflato da neo-nouvelle vague che ne fa l’opera più radicale e interessante del concorso, soprattutto con quello sfondamento finale del muro diegetico, in cui ci viene mostrata la troupe. Una miniatura di “film parlato” ad alto tasso esistenziale di godibilità.

Beata Parkanova

Due premi sono andati alla beniamina di casa, Beata Parkanova, che con il suo La parola ha disegnato magistralmente la figura e la parabola di un dissidente anti-comunista che non è mai assurto all’onore delle cronache (ispirato al nonno dell’autrice), ma che con il suo esempio di fedeltà ai propri principi avrà sicuramente avuto moltissimi paralleli nei vari regimi autoritari della fine del XX secolo in Europa dell’est. Alla regista ceca va il Premio per la migliore regia, mentre all’austero Martin Finger, che disegna con precisione psicologica la figura del “notaio dissidente” viene assegnato il Premio per la migliore interpretazione maschile.

A Room of My Own

Pari merito alle due protagoniste del film georgiano A Room of My Own di Soso Bliadze il Premio per la migliore interpretazione femminile. Le giovani Taki Mumladze e Mariam Khundadze interpretano due ragazze nel pieno turbine confusionale dei loro vent’anni, indecise sul lavoro, sull’amore e sul futuro, e unite occasionalmente solo da un annuncio che le porta prima a condividere un appartamento di Tbilisi, poi un piccolo tratto comune nel cammino della propria vita. A chi scrive non è sembrato di ravvisare chissà quali interpretazioni stellari delle due protagoniste, ma nel “manuale Cencelli” della suddivisione dei premi per aree e tipologie l’assegnazione ci può anche stare. Io avrei provato ad inserire nel palmares anche un gustoso film tedesco di “teoria filmica applicata”, ossia Le comparse di Sophie Linnenbaum, che immagina un mondo parallelo ed anti-utopico dove tutti i cittadini interpretano dei ruoli pre-scritti e gerarchicamente preordinati, secondo i quali essi vengono suddivisi in caste: star, attori secondari, comparse, personaggi vittime di cast sbagliato e così via. La Linnenbaum inventa in realtà una serie molto divertente di gag, per cui asincronia del parlato o profili sfocati condannano i personaggi secondari ad una vita grama e umiliante, che conduce ad una sorta di suddivisione fra élite e outcast clandestini perseguitati dalla “polizia cinematografica”. Godibile distopia meta-cinematografica che forse avrebbe meritato una menzione nel gruppo dei premiati.

La pietà

Diremo brevemente anche dell’altra sezione competitiva, Proxima, nella cui Giuria era presente anche il regista ucraino Myroslav Slabospyckyj, autore di The Tribe. Qui il documentario ceco in concorso ha preso il premio principale, ed effettivamente l’opera a quattro mani di Tomas Bojar e Adela Komrzy, Art Talent Show, offre uno sguardo smagato e pieno di ironica verve all’interno dei laboratori dove auspicabilmente nasceranno i futuri artisti del paese. Il Premio speciale della Giuria è andato a La pietà con Angela Molina, un film dalla temeraria e affascinante impostazione visiva, in cui lo spagnolo Eduardo Casanova coniuga elementi horror con riflessioni sull’autoritarismo materno, qui paragonato allo juche della Corea del Nord. Unheimlich e per certi versi sconcertante è anche Lo zio, dei croati David Kapac e Andrija Mardesic, che inventano un’assurda riunione familiare alla Haneke che combina thriller, riflessioni politiche sulla ex-Jugoslavia e giochi attoriali stranianti (ottimo un minacciosissimo Miki Manojlovic). Ai croati è andata una meritata menzione speciale.

Lo zio

Una nostra riflessione totalmente soggettiva: da quest’anno non è più presente la interessante sezione competitiva “Ad est dell’ovest”, sostituita appunto da Proxima. Una delle motivazioni addotte è che ormai, a così tanta distanza dalla caduta dei muri, raggruppare esclusivamente i film del centro ed est Europa non aveva più senso, in quanto ormai quelle cinematografie sono diventate adulte e non necessitano di essere evidenziate a parte, anche per non “ghettizzarle”. Se possiamo essere d’accordo con queste riflessioni (pensiamo alla qualità del cinema romeno, alla produzione sostanziosa dei polacchi, a varie promettenti cinematografie come quelle kosovara e ucraina), pur tuttavia ci è sempre sembrato utile avere a disposizione una sezione che gettasse un raggio di luce areale su produzioni che avevano avuto una storia socio-politica comune. Ne avremo nostalgia, e vedremo quale personalità sarà data al sostituto Proxima.

Per concludere, fra gli altri premi assegnati citeremo almeno uno dei vari documentari legati ad eventi epidemici, il bulgaro Provincial Hospital, cui va giustamente il Premio della Giuria Ecumenica, poi ancora il Premio della Giuria FIPRESCI assegnato dall’associazione che riunisce i critici a livello internazionale, andato a Borders of Love, con cast ceco ma regia del polacco Tomasz Winski, che indaga con alti e bassi espressivi un tentativo di rapporto poliamoroso, e infine il Premio Europa Cinema Label, che individua film meritevoli di essere sostenuti nella distribuzione, il quale va al polacco Fucking Bornholm di Anna Kazejak, il quale effettivamente ci pare avere buone chances di successo di pubblico a più latitudini.

Come sempre, grazie Karlovy Vary, all’anno prossimo!