A colloquio con Boris Pahor

Intervista al più rappresentativo scrittore sloveno

Quattro ottobre 2012: villaggio di Prosecco (Trieste) posto a sentinella del Carso di lingua slovena. Gli abitanti sempre sulle difensive, come nel sud Tirolo, di fronte ai forestieri di lingua italiana. Tale riserbo l’abbiamo stracapito leggendo le pagine tragiche di Boris Pahor (persecuzioni e condanne, sotto il ventennio fascista, sia di morte che di prigionia, i devastanti campi di concentramento italiani di Gonars – Friuli – e Cittanova – Veneto -, l’incendio con gli sloveni dentro della casa di cultura in Piazza Oberdan a Trieste nel 1920, le infoinbazioni fasciste a Villabona – Istria –).

Attendevamo il più rappresentativo scrittore sloveno nel bar Luska al centro di Prosecco. Si è presentato puntuale con disivoltura giovanile (lui novantanovenne) pregandoci, dopo averci chiesto di custodirci la borsa della spesa, di attendere dieci minuti per cambiarsi la maglietta sudata: era appena sceso dall’autobus di linea che l’ha portato da Contovello posto a un chilometro come un nido prezioso a picco sul mare.
Si è seduto, soddisfatto dei visi di amicale benvenuto, iniziando a parlare senza quasi fermarsi, punzecchiato solo dalle nostre brevi chiarificazioni.

“Mi accusano di nazionalismo, mentre invece sono solo un puro socialdemocratico che difende il diritto di ogni popolo – nel mio caso lo sloveno – ad avere la propria vita culturale, di poter possedere una coscienza nazionale ma non nazionalista nell’ambito di una confederazione socialista. Si è nazionalisti se non si permette ad altri gruppi di conservare i propri diritti e le proprie attese politico-culturali. Nell’ultimo capitolo dell’Umanesimo di Mounier – prosegue – troviamo che la nazionalità è un valore, che una nazione è formata da molte famiglie armonicamente unite in una grande famiglia. Mi sono sempre battuto contro quelli che ci impongono valori contrari alla libertà di espressione e di comportamento. E’ sbagliato un partito socialista globale, è auspicabile invece una federazione in cui ogni popolo sia autonomo, pur inserito o controllato nella e dalla comunità.

“Ritornato nel 1947 in Italia dal sanatorio francese ho vissuto la mia piccola battaglia dal dopoguerra sino alla caduta della dittatura socialista titoista. Assieme a mia moglie scrivevamo sulla nostra rivista “Zaliv” strali contro la dittatura di Tito auspicando una confederazione socialdemocratica. Chiarivo ai comunisti iugoslavi: lasciateci vivere e non liquidate politicamente la nostra cultura. Anche noi sloveni eravamo divisi: i socialisti democratici e i cristiani sociali contro gli aderenti al partito di Belgrado e agli sloveni cattolici integralisti che del marxismo ne hanno fatto lo spauracchio.

Noi leggevamo Maritain, Mounier con il suo Exprit, sotto la guida di don Janez Evangelist Krek e il poeta-sociale Edvard Kochek. Sin dal 1917 i socialisti sloveni decisero di non seguire la linea leninista sovietica. Appoggiavamo le iniziative dei Presuli Fogar e Seley, il primo, vescovo di Trieste, il secondo di Gorizia. Ambedue si sono prodigati per i diritti politici e civili della popolazione slovena contro i soprusi della dittatura fascista. Ambedue poi sono stati allontanati di brutto dalle loro sedi. Dicevano i due Vescovi: difendiamo i diritti della nostra gente slovena a costo di perdere la mitria pastorale. E l’hanno persa ma non la loro dignità.

Questa situazione ambigua, dei cattolici fanatici contro quelli più aperti secondo l’Evangelo, influì molto – come mi chiedevate – sulla mia formazione religiosa: sono religioso ma non approvo le posizioni reazionarie delle alte gerarchie ecclesiastiche di ieri e di oggi.
Vorrei di nuovo aggiornare le mie lettere scritte a suo tempo al Vescovo Fogar e aggiungere alcune considerazioni appropiate. Con lui ho avuto un sentire partecipativo.
Spero di aver contribuito con i miei scritti e il mio comportamento a illuminare il cammino tragico e luminoso della mia gente slovena sottoposta a una via crucis devastante da parte dei nazifascisti. Mi auguro che lo capiate non solo voi ma pure quelli che non si rassegnano a un nazionalismo gretto e dannoso”.

Nella foto Boris Pahor con Giacomo Botteri (NonSoloCinema.com)