“AHASIN WETEI (BETWEEN TWO WORLDS)” di Vimukthi Jayasundara

Il ritorno del principe

Venezia 66. Concorso
Caduto dal cielo, Rajith si ritrova stordito su una spiaggia. Giunto quasi per caso in una città stravolta da un’insurrezione, inizia un indecifrabile cammino verso la campagna e la natura, vanamente in fuga dalla violenza e dall’orrore degli uomini.

Misterioso ed ipnotico come nessuno dei film visti in Concorso, Ahasin Wetei deve il suo fascino al tentativo di interpretare il convulso momento storico dello Sri Lanka attraverso il recupero di uno schema tipicamente folklorico quale il ritorno del principe predestinato che, dopo un lungo periodo di lontananza, riconquista il regno garantendogli pace e giustizia. L’esperimento potrebbe sembrare dettato dall’ingenua convinzione di una linea di continuità tra il passato e il presente srilankese, che viene enunciata da uno dei personaggi e riceve peraltro una compiuta metaforizzazione attraverso l’insistenza sulle stagnanti acque di un lago. Ben più complessa e ‘dialettica’ è, però, la visione della realtà di Jayasundara, che del resto lancia subito un monito allo spettatore aprendo la pellicola con la pregnante immagine di un monte che svetta, saldo ed inamovibile, tra manti di nubi in lento ma costante movimento.

Come si evince da un esemplare dialogo tra un pescatore ed un ragazzo, la storia del ‘principe redivivo’ è, alla pari di tutti i racconti della tradizione orale, un paradigma aperto, un “pattern” soggetto a riscritture, ampliamenti e rimodulazioni da parte di ogni nuovo aedo; e così avviene anche con Jayasundara, che sceglie di rovesciare progressivamente il consueto profilo del protagonista e il senso complessivo del suo viaggio. Rajith non inizia le proprie peregrinazioni sotto la spinta di nobili ideali ma solo dopo aver captato in modo del tutto fortuito i clamori della sommossa scoppiata in città; e accidentali (con qualche affiorante sfumatura picaresca) sono anche i successivi snodi del suo viaggio, in cui egli continua a contraddire l’ipotesi di una predestinazione, lasciandosi guidare da moventi elementari quali la lascivia, la curiosità o la paura.

Rajith è un antieroe la cui parabola è significativamente racchiusa tra l’iniziale caduta dal cielo (che in apparenza lo presenta come un dono divino per l’umanità ma, a posteriori, lo qualifica come una sorta di angelo rinnegato) e la volontaria reclusione nel tronco di un albero, ossia nel luogo da cui nel plot archetipico prendeva le mosse la sua rivalsa e che invece qui segna l’apice della sua viltà. Per sottolineare ulteriormente l’ambiguità del protagonista Jayasundara non lesina poi un espediente destinato a spiazzare lo spettatore, ovvero l’introduzione surrettizia di semplici ipotesi narrative (la brutalizzazione di un bambino e, poi, della donna amata) che vengono subito contraddette dai fatti ma bastano ad evocare il lato oscuro del personaggio già contemplato dalle molteplici versioni del paradigma mitico.

L’obiettivo perseguito da Jayasundara con questo sofisticato esperimento è non soltanto amplificare la complessità della temperie storica srilankese dimostrandone la sopravvenuta irriducibilità a modelli culturali autoctoni e secolari, ma anche suggerire che lo svigorimento della coscienza morale del proprio popolo è una delle radici dello scarto tra il principe mitico e il Rajith del film, tra il folklore e la storia. Si tratta di un altro dei motivi-chiave del film, ed il regista non manca di offrirne anche una declinazione simbolica insistendo sugli organi sensoriali del protagonista.

Nella prima parte della storia Rajith non sa o non può adeguatamente avvalersi dello sguardo: a ridestarlo dal torpore sulla spiaggia è una sensazione acustica (l’eco dei clamori in città, preclusi alla sua vista da una parete rocciosa); successivamente, quando il sonno lo induce a chiudere di nuovo gli occhi, è subito tradìto dai suoi primi due compagni di viaggio; lo ritroviamo quindi con un occhio tumefatto e serrato, che necessita di un apposito rituale di guarigione. Recuperata la piena funzionalità dell’organo, Rajith diviene conscio dell’urgenza dei problemi con i quali è tempo di confrontarsi: collabora quindi alacremente alla purificazione dell’acqua avvelenata di un villaggio, salvo poi dover trattenere il proprio ardore dinnanzi ad un devastante attacco di nemici a cavallo che sembrano provenire dal passato. Il film si chiude con Rajith nascosto nel tronco dell’albero e con il dettaglio dei suoi occhi sgranati, che ormai percepiscono con chiarezza l’incombente pericolo mortale e che proprio per questo aprono la strada ad un terrore paralizzante.

Un finale amarissimo, quindi, ma a regalarlo è lo sguardo di Jayasundara, che è ben più lucido e coraggioso di quello del suo personaggio e, grazie ad un raro connubio di acume antopologico e rigore etico, offre una fulgida conferma dello straordinario talento già emerso nel primo lungometraggio “Sulanga enu Pinisa”, premiato a Cannes 2005 con la Camera d’or. Impreziosito da splendidi piani sequenza con un montaggio interno demandato a calibrati movimenti di macchina che esplorano le suggestioni simboliche della natura e riescono altresì a rendere magicamente compresenti due mondi diversi, “Ahasin Wetei” è uno dei film più ammalianti presentati alla rassegna veneziana negli ultimi anni.

Titolo originale: Ahasin Wetei
Nazione: Sri Lanka
Anno: 2009

Genere: Drammatico
Durata: 80′
Regia: Vimukthi Jayasundara

Data di uscita: Venezia 2009