“Io non vorrei essere qui e non vorrei avervi qui. Sono molto franco”. César Brie, un po’ scherzando, un po’ no, avvisa gli spettatori: quello che andremo a vedere è solo un assaggio, un’anteprima dell’anteprima, dello Studio su Zio Vanja che sta preparando con dei giovani attori.
Villa dei Leoni, a Mira, ha messo infatti a disposizione del regista argentino il palcoscenico e la residenza: in due settimane (dal 13 al 27 maggio) la compagnia è riuscita a montare 45 minuti di spettacolo (un atto e mezzo sui quattro totali) dell’opera di Cechov amatissima da Brie. Una sorta di laboratorio, che in realtà si prefigura come la fase di allestimento di uno spettacolo vero e proprio.
L’iniziativa, sostenuta da La Piccionaia-I Carrara e il Teatro de L’Aquila, è nata due anni fa, dopo l’esperienza-laboratorio de Il cielo degli altri, spettacolo di Brie sull’emigrazione. La scelta dello Zio Vanja è sorta attorno al tema Come aggirare le trappole del naturalismo: “Lo Zio Vanja è uno dei più meravigliosi testi teatrali, un testo naturalista scritto nel 1890: abbiamo cercato il modo per affrontare un classico, in cui c’è molto dialogo, senza riprodurre con le azioni il senso delle parole”.
Lo spettacolo, in un primo momento, era diretto da Isadora Angelini, cui poi si è aggiunto César Brie modificando sostanzialmente l’impianto registico.
L’atto e mezzo presentato al pubblico sabato 27 maggio a Mira promette davvero bene: nonostante le mille preoccupazioni di César Brie (“Seduto in platea ero nervosissimo”), che chiede al pubblico di dargli le sue impressioni, la scena incanta.
Saranno gli oggetti che, appesi a dei fili trasparenti, dondolano in continuazione (“Come usare gli oggetti in maniera non naturalistica? Appendendoli. Danno il segno del tempo che passa e fanno da cassa di risonanza dei sentimenti dei personaggi”), sarà la dissociazione di gesti, rumori e voci, sarà la recitazione convincente di chi calca la scena, sarà l’uso intelligente di una scenografia sì abbozzata, ma già definita nello stile minimalista (“Lavoro molto sulla metonimia, la parte per il tutto: una porta che gira fa tutta la stanza”), ma il testo di Cechov viene affrontato in modo originale e coinvolgente.
Brie per la prima volta lavora su un classico rispettando il testo dell’autore: “Perché tutta la bellezza delle parole si dimostri”. Porta Cechov anche sul palcoscenico, gli fa introdurre ogni atto, cerca le movenze degli attori che accompagnino la lievità o la gravità dei testi: e si ha l’impressione che il corpo voglia rendere omaggio alla parola, così lontana eppure così attuale. Perché nello Zio Vanja ci sono le tempeste interiori dei personaggi, c’è la loro disarmante sincerità, c’è lo specchio di un’ “umanità che chiede di se stessa”. E che si guarda attorno, con la grande capacità di riflettere anche il tempo presente. Come quando affronta il disastro del progresso: “Cechov vedeva già nella Russia degli zar i segni della distruzione della natura, dei boschi. Quella è la parte più politica dello spettacolo ed è assolutamente attuale”.
Tra un mese lo Studio su Zio Vanja sarà pronto, con dei ritmi di lavoro “troppo stretti per me: nel primo mondo c’è il denaro per la cultura, ma tutti hanno una fretta bestiale; in Bolivia non c’è una lira ma in compenso abbiamo tutto il tempo che vogliamo.”
Noi, nell’attesa, abbiamo fatto una piccola chiacchierata con César Brie, sui suoi lavori e sul suo modo di fare teatro. Ne esce uno spaccato dell’umanità profondissima e intelligente di uno dei più bravi registi in circolazione.
Iliade, Dentro un sole giallo, Otra Vez Marcelo. Mi ha colpito una sua risposta a chi le chiedeva se il suo fosse in qualche modo un teatro politico: “Io non faccio teatro politico, io faccio teatro. Se la politica entra nella vita di tutti i giorni, entra anche a teatro”.
Quello che cerco è di dire il presente. La nostra vita, il nostro essere contemporanei, il rapporto col mondo escono sempre, sia nella poetica, che nella politica. Per me è importante sviscerare questo presente che viviamo, e che va dall’intimo, dal personale, da un dolore d’amore, fino al sociale, ai problemi dei gruppi di persone. Però tutto è parte del presente: non penso che l’artista si debba isolare dal mondo per dire qualcosa, ma che, al contrario, debba essere radicato nel mondo per poter dire qualcosa. C’è una bellissima definizione di Camus che dice “L’artista è a metà tra la società dalla quale non si può staccare e la bellezza alla quale non può rinunciare. Questo è esattamente quello che penso, e che quindi cerco di fare. Mi rifiuto di dire che faccio “teatro politico”, perché spesso il teatro che si auto-denomina politico giustifica la sua mancanza di qualità con le sue buone intenzioni. Per me questo è inammissibile: le cose vanno fatte bene, sennò è meglio non farle. Per questo, più che usare aggettivi, dico semplicemente che quello che io faccio è teatro; e in questo teatro entra anche il politico. E che fare teatro sia anche un atto politico, così come tutto è politica, in realtà è scontato, in quanto tutto fa parte della polis, dell’insieme della nostra vita.
Il suo teatro ha anche un filone più esplicitamente intimistico: è quello de Il mare dentro o di Fragile. Come si avvicina a quella che una volta ha chiamato “l’universalità dell’io”?
È una parte di noi. Quello che chiamiamo il coro greco, la massa, è in realtà l’io molteplice, che si moltiplica e diventa di tutti. Quando parlo di qualcosa di intimo, quello che mi interessa è che tutti vi si riconoscano: posso parlare di me solo nella misura in cui questo particolare diventa universale. Non parlo di privato, ma di intimo: l’intimo, a differenza del privato, è una cosa di tutti. La mia intimità è mia, però bene o male ha a che vedere con le intimità degli altri. C’è un noi nell’io: per cui a volte affronto gli spettacoli dal noi per arrivare all’io, a volte dall’io per arrivare al noi. C’è sempre questo viaggio, dall’individuo verso il sociale, e dal sociale verso l’essenza, verso la persona.
Qualcuno ha definito la sua arte un’arte apolide: la sua vita sempre in viaggio, con attori provenienti da paesi diversi, affrontando culture diverse, cosa porta sul palcoscenico e nei testi che scrive?
Viaggiare, conoscere tante realtà e culture diverse mi ha fatto capire che, in sé, non è interessante dire “Lavoro con questo perché è indigeno” o “Lavoro con questo perché è straniero”. No: lavoro con lui perché è una persona. È questo ciò che ci accomuna tutti. Oggi non prenderei qualcuno perché ha una nazionalità: prenderei qualcuno perché ha urgenza, perché ha qualcosa da dire, e perché ci troviamo bene a far qualcosa. Così, qui lavoro con questi ragazzi, alcuni dei quali non hanno nemmeno mai fatto teatro, e poi in Bolivia lavoro nelle realtà di contadini, o di studenti. Quello che cerco sempre è la persona, le persone, i rapporti. Io poi non sono un tipo che va alle feste, che ha modo di fare amicizie: non ho molti amici, in realtà. Però amo le persone attraverso il mio lavoro, è questo il luogo in cui mi incontro con gli altri. È lì che nasce il rapporto umano: vedere un ragazzo che non tira fuori la sua voce e che dopo qualche settimana di lavoro scoppia è come vedere un’anima che comincia ad accendersi, e che comincia a creare.
Il premio di Zio Vanja, per me, in realtà è una cosa molto privata: due ragazzi fino a due giorni fa erano bloccati, non riuscivano a tirar fuori la voce, e oggi, di colpo, l’hanno tirata fuori e hanno fatto delle cose anche molto buffe. Questo per me è meraviglioso: hai lavorato, lavorato, e alla fine hai sturato il lavandino, hai aperto un iceberg da cui viene fuori un’energia inaspettata.
Anche per loro è una sorpresa sentire che si allargano. Il teatro ha questo di meraviglioso: si fa con il corpo, la voce, l’anima; con le persone. Queste tre cose devono fiorire sul palcoscenico: se riesci a farlo è già moltissimo.
Foto: © Tommaso Saccarola