Berlinale: “Death in Sarajevo” di Danis Tanovic

Eterni ritorni

Berlinale 2016: Concorso

È un giorno importante a Sarajevo, il centesimo anniversario dell’attentato di Gavrilo Princip che fornì uno dei pretesti per lo scoppio della prima guerra mondiale, e in un albergo internazionale della città bosniaca si incrociano ospiti importanti, vecchi risentimenti etnici e attualissime lotte per il diritto al lavoro.

Danis Tanovic alterna film dedicati alle sue terre (premio Oscar con l’esordio sbalorditivo No Man’s Land, un’interessante storia di ritorni familiari in Cirkus Columbia…) con non sempre riuscite opere di respiro e produzione più ampia e internazionale, ma sembra che riesca a dare il meglio di sé solo quando deve affrontare, nolente o volente, gli irrisolti gangli storici e agglomerati indistricabili di contrasti e odi incrociati che affliggono la sua bella ma martoriata Bosnia. Qui egli dà il suo personale contributo alle “celebrazioni” del centenario dello scoppio della Grande Guerra, scrivendo da sé la sceneggiatura, ma facendosi anche ispirare da un monologo teatrale di Bernard-Henri Lévy, dedicato all’arrivo di un importante ospite francese che terrà un discorso sulla pace e lo stato di salute dell’Europa centrale, a vent’anni dalla fine delle aperte ostilità nell’ex-Jugoslavia.

E’ evidentissimo che per l’autore la materia sia tutt’altro che raffreddata e consegnata alla storia, anzi egli decide di basare parte del messaggio su dialoghi molto serrati fra i sostenitori di opposte fazioni e opinioni circa i personaggi e le vicende degli stati balcanici, appesantendo invero un film che avrebbe altrimenti guadagnato qualcosa in levità e metaforicità. Troppe, forse, le domande: l’attentatore Gavrilo Princip che uccise l’erede al trono austro-ungarico era un eroe nazionale? E se lo era, era egli serbo, bosniaco, “jugoslavo”? O invece, secondo i canoni di una possibile interpretazione moderna, era un terrorista? O, ancora, se dobbiamo dar ragione alla disillusa giornalista sarajevese che interroga in un giorno così importante vari personaggi della società post-jugoslava, era solo un ragazzino manipolato e invischiatosi in una vicenda clamorosamente più grande di lui?

Come si accennava, Tanovic riesce solo in parte a districarsi dai pericoli di una materia per lui ancora troppo scottante, appesantendola con verbosità e dichiarazioni un po’ troppo categoriche e lapidarie, inscendando diatribe interminabili fra reciproche accuse e ripicche di serbi, croati, bosniaci, ortodossi, musulmani e via discorrendo, che uno spettatore non esperto di tragedie jugoslave perde di vista praticamente ala seconda battuta. Ci vediamo vomitati addosso nel giro di cinque minuti tutti gli orrori e le questioni annose legate a Milosevic, Karadzic, Srebrenica, reciproci genocidi…, con il rischio che si scada in un retorico pamphlet socio-politico per immagini senza alcuna possibilità di seria riflessione. Pur tuttavia, il film colpisce il segno su un livello più generale, illustrando l’impossibilità quasi ontologica di lasciarsi alle spalle il passato e ricordandoci una legge tanto triste quanto universale: l’essere umano non rinuncerà mai a rivangare le vecchie colpe e le vecchie accuse.

Peccato dunque che l’ottimo regista si sia tanto affidato alla parola (che invece, nell’enigmatico personaggio dell’ospite francese, egli prende funzionalmente in giro). Ché il film ha invece nella regia e nella gestione dei contrasti fra i personaggi (almeno fino a certa parte del finale) il suo punto forte: con carrellate a seguire che fendono i corridoi e i piani dell’albergo Tanovic ci porta dalla terrazza da cui è possibile vedere una città finalmente ricostruita (almeno esternamente…) fino ai sotterranei di un fumoso pub gestito dalla nuova-vecchia mafia che con i propri metodi spicci e sbrigativi cerca di fare concorrenza alle banche, altro sistema ben poco umanitario di gestione dei fondi europei e delle nuove possibilità esistenziali e imprenditoriali.

L’albergo diventa dunque una finestra su un intero paese, simbolico aggregato a più piani di contrasti sociali e bubboni etnici mai ben curati, e in questo bailamme di livelli alberghieri e sociali ci vanno di mezzo i semplici lavoratori, senza stipendio da mesi e temerari nel credere che un loro misero sciopero possa attirare l’attenzione di qualche funzionario (o attore, o impostore?, o utile idiota?) europeo che capita da quelle parti più per parlarsi a addosso e darsi una patina umanitaria che per capire davvero cosa succede nel calderone balcanico.

Tanovic riesce comunque a toccare, almeno in alcuni momenti, un livello di figuratività metaforica, che si eleva nei migliori dei casi dalla specificità della situazione post-jugoslava e pone delle questioni antropologiche più ampie sulle (scarse) opzioni che l’essere umano ha di far valere i propri diritti e di aprirsi al dialogo con l’altro, che sia questi il membro di un’altra etnia, di un altro stato o di una differente categoria sociale. Lo fa con un cinema girato a spron battuto, con la mdp che va di corsa da un luogo e da un personaggio all’altro, rimanendo però a volte senza fiato e ansimante in questa sua arrabbiata e imperfetta ma sincera riflessione sulla morte che, lungi dall’essere detonata dai numerosi anniversari, continua ad aleggiare su Sarajevo e sull’Europa con corsi e ricorsi che potrebbero ancora sorprenderci negativamente.