Nel momento in cui si inizia a visitare con spirito predisposto, una grande mostra come la Biennale di Venezia, ci si aspetta di vedere qualcosa di nuovo. Qualcosa che sorprenda oppure che affascini. Nel tempo, visitando le successive Biennali, siamo passati attraverso mostre innovative e studiate con cura, ma anche attraverso altre così poco interessanti da sembrare noiose. Quest’anno il titolo così indovinato creava una curiosità particolare tanto da credere che avremmo potuto vedere opere insolite, innovative e colme di significati. Sono io stessa un’artista per cui sono molto attenta a cercare di capire ogni opera proposta ed evito sempre di liquidarla con una battuta. Ma, mio malgrado, devo dire che le opere che ho trovato comunicative e attraenti sono state poche.
Forse non ho avuto il tempo di vedere anche tutte le mostre collaterali, ma direi che complessivamente le installazioni o i padiglioni da salvare sono 5+1.
L’impressione, entrando all’Arsenale è stata di una conversione verso il passato.
Mi è sembrato di tornare a vedere quelle opere di “denuncia” che furoreggiavano negli anni ’60, ’70.
Senza nessuna nota altisonante fuori del coro che si faceva rilevare, di installazione in installazione, di video in video, di fotografia in fotografia, di pittura in pittura il registro non è mai cambiato. Abbiamo notato violenza, ferocia, e poi ossa umane a forma di lume (quasi come quelle nella chiesa dei Cappuccini in via Veneto a Roma) e anche un aereo che precipita con un Cristo in croce legato alla fusoliera. Ma anche foto di persone morte in Iraq e in Afganistan. E ancora, panico e utopia che raccontati in video, proponevano la visione di “gole profonde” mentre parlavano. E di nuovo violenza, guerra, decadimento, vecchiaia e ancora morte come nelle opere di Angelo Filomeno, peraltro belle, che su pannelli blu con disegni in oro proponeva scheletri.
Da segnalare l’operazione della brasiliana Paula Trope, inserita nel Morrihno Project. Questo uno dei progetti più duri ed emozionanti della Biennale. Da Rio de Janeiro sono arrivati venti ragazzi che, coordinati dal fotografo Marco Oliveira e dall’artista Francisco Franco, hanno costruito nei Giardini un’intera favela di trecento metri quadrati adoperando i materiali più diversi e di risulta.
Però da tutta questa rappresentazione di parte di mondo così agghiacciante, farei emergere le opere di Felix Gmelin che ha presentato splendide fotografie di materia che sembrano quasi opere di un Burri rivisitato.
E forse, proprio per questo racconto continuo di inquietudini e conflitti contemporanei (che purtroppo peraltro esistono…anche nei videogame per ragazzi!) alcuni artisti hanno sentito l’esigenza di “giocare”, di tornare bambini, di cercare il divertimento.
Alcuni video descrivevano situazioni attraverso i fumetti, come quelli della giapponese Tabaimo. Quasi come se volessero segnare un desiderio di gioco, di abbandono delle situazioni serie e gravi.
Come le opere del più famoso scultore africano, El Anatsui. Ha infatti costruito due bellissimi “arazzi” che riempivano una sala dell’Arsenale e un altro che ricopriva la facciata di Palazzo Fortuny. Arazzi fatti di piccoli pezzi di lattine, talmente colorati e attraenti da sembrare mosaici.
Alla conclusione del percorso attraverso l’Arsenale, ecco il nuovo Padiglione Italiano, uno dei 5 da salvare che ho indicato all’inizio.
La curatrice Ida Granelli, che ha scelto due artisti solamente, è stata piuttosto contestata dagli esclusi.
Penso invece che abbia fatto una giusta scelta, non solo perché il Padiglione non è molto grande, ma anche perché le presenze selezionate sono significative e diversamente molto interessanti.
Da una parte il meno giovane Giuseppe Penone che, attraverso la materia, ci fa arrivare all’anima dell’opera. Voglio riportare solo il suo significativo pensiero, talmente chiaro che rende inutile descrivere l’opera.
“Sculture di linfa. Spazi coperti dalle mani, spazi svuotati dalle mani. Lo spazio della scultura riempito di linfa. Il flusso della mano che scorre sulla corteccia degli alberi, che rivela la forma del legno e le vene del marmo.”
L’opera del più giovane Francesco Vezzoli è più “contemporanea”.
Democrazy (Demopazzia) si ispira all’imminente campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti.
Due video contrapposti trasformano lo spazio in un’arena che mette in campo una sfida tra due candidati, una donna e un uomo. Il confronto, però, è affidato a due celebrità: Sharon Stone e Bernard-Henri Levy. Quindi si evidenzia l’idea che un candidato può essere fabbricato, confezionato e venduto agli elettori in ogni istante. Importante per il candidato è affidarsi ad un team di esperti professionisti.
Ecco si delinea l’immagine di un mondo soggiogato dalle leggi dello spettacolo.
Ancora una volta, appare chiaro nella nostra mente la visione di un pensiero: liberiamocene. Di tutti?
Dopo la visita all’Arsenale andiamo ai Giardini.
Nel complesso, ma soprattutto al Padiglione Italia, sembra una mostra già vista.
Poche, pochissime le sorprese. Che sia già stato detto tutto? Oppure i curatori non riescono a vedere ciò che può “diventare” interessante?
Eppure, le altre installazioni che salverei sono qui, ai Giardini. L’opera più affascinante viene da una donna, la francese Sophie Calle, che trasforma il padiglione francese in una sorta di “happening” mediatico. Ha avuto un’idea che forse, oggi, vorrebbero attuarla tutti.
Quante volte abbiamo ricevuto e-mail strane, particolari che ci hanno suscitato sorpresa e ci hanno portato a riflettere da tanti punti di vista. Quante volte siamo partiti da un’idea e abbiamo pensato di costruire su quella uno spettacolo, un libro, un’opera? Ecco, Sophie Calle ha fatto proprio questo. E’ stata colpita da una frase che le avevano scritto “abbia cura di sé” e l’ha fatta elaborare da altre 107 donne per esaurirla, per accantonarla. Sono nati così commenti, ma anche analisi, recite, canti, danze. Un’inchiesta che è stata trasformata in installazione, in video, in scritti che hanno riempito il Padiglione secondo una costruzione rigorosa.
Questa, forse, è l’opera più divertente, affascinante, contemporanea della Biennale.
Ma anche dall’artista giapponese Masao Okabe è arrivata un’opera altrettanto penetrante e significativa, incentrata su un discorso importante. La civiltà con l’aiuto delle tecnologie riesce a scoprire e ad approfondire il passato, ma nello stesso tempo, per altri versi sembra che lo annienti. L’uomo contemporaneo deve trovare la forza di opporsi alle cancellazioni del vissuto e ha il dovere di passare alle generazioni future una profonda eredità culturale.
Okabe ha pensato di farlo attraverso 4000 opere di frottage. Ha “ricalcato” per nove lunghi anni le pietre del ciglio della banchina del porto militare di Hiroscima.
Oggi, al posto della stazione c’è un’autostrada e l’artista con pazienza e costanza, servendosi solo di carta e matita è riuscito a registrare la storia attraverso quei 4000 disegni.
Devo dire che solo dal Giappone arrivano opere così intense.
Mentre dalla fantasiosa Spagna sono arrivati quattro artisti e un duo d’azione che hanno segnato un bel Padiglione con il progetto “Paradiso Spezzato”.
Progetto che si articola sull’idea della positiva ibridazione delle pratiche artistiche contemporanee, fotografie, immagini in animazione, gesto corporale, suono, voce, musica. Paradiso è il modello di visione, un paesaggio salvato nel mezzo della realtà. Tutte opere importanti, piene di idee, e anche divertenti.
Infine, tra le opere da salvare, un’installazione dell’australiano Daniel von Sturmer, “The object of things”.
Attraverso invenzioni architettoniche l’artista interagisce con lo spazio proponendo momenti pittorici o reali che accendono l’aspettativa e la percezione dello spettatore.
Guardando, il pensiero corre per fermarsi nei punti in cui i video ci fanno entrare in lenti mondi paralleli eppure tanto reali. Mondi attraverso i quali è possibile costruire momenti di intima e intensa riflessione. Momenti che portano il nostro spirito a volare.
Ed ecco esauriti i 5 padiglioni da salvare.
Un discorso a parte per gli eventi collaterali