“CHIAMATEMI KOWALSKI-IL RITORNO” di Paolo Rossi

Un tuffo nel passato, per raccontare, ridendo, la nostra povera Italia

Tre giorni di tutto esaurito al Teatro Persiani di Recanati, in provincia di Macerata, terra di passeri solitari e donzellette venute su dalla campagna. Con uno spettacolo dirompente, il folletto della comicità italiana spolvera e indossa uno dei tanti costumi, quello degli esordi, per narrarci un presente fatto di incertezze, confusione, amari sorrisi.

“Il recital è sempre una questione personale”, è scritto sul sipario, sapientemente disorganizzato, dove vecchie locandine strappate si affastellano le une alle altre. E non si capisce se a pensarlo sia Rossi o il suo alter ego, Kowalski, oramai diventato maggiorenne, riportato in vita per occasioni molto speciali (o almeno così appaiono, alla fine, tutti gli spettacoli).

Rossi si presenta sul palco come se tutti questi anni fossero passati invano, e la gavetta fosse ancora una strada ignota, un sentiero oscuro al di là delle ultime luci della città, da percorrere quanto prima: accompagnato da quattro musicisti e il resto di una toilette, sembra di vederlo ancora agli inizi, nei locali fumosi di una Milano vera, non quella da bere del centro ricco e produttivo, quando, riempiendo le serate con monologhi un po’ improvvisati, un po’ preparati, iniziava a far conoscere quel suo nome, già abbastanza famoso. Ci sono briciole di nostalgia in questo nuovo, vecchio spettacolo, dove la memoria, condotta per mano, indietro nel tempo, torna ai fasti di un’Italia che adesso, sotto una diversa luce, mostra rughe, imperfezioni, increspature.

Kowalski parla, canta, recita, improvvisa (certe cose uno se le porta dietro sempre, alter ego o non alter ego), seguendo il copione oppure, più di frequente, lasciandosi andare a ricordi personali che, in mano sua, chissà come, diventano tutti invariabilmente irresistibili. Ce n’è per tutti, nessuno escluso: dalla politica, manco a dirlo, alla televisione, Rossi-Kowalski sonda la realtà attuale, quello che siamo diventati, nostro malgrado o a causa nostra, fa paragoni con il passato, si scopre profetico, racconta di fantomatici sogni all’incontrario dove i piccioni, in visita a Milano, fanno i loro bisogni in testa ai giapponesi, asseconda un pubblico scalmanato, e rovescia sulla platea, sui palchi, chili di sana comicità, feroci spunti, amare riflessioni.
E’ un continuo andare avanti e indietro in quest’Italia confusionaria, un ricucire gli strappi, mettere una pezza là dove ce ne sia il bisogno, osservando gli anni trascorsi per capire come, e perché, si sia arrivati sino ad oggi, a quest’oggi.

E’ bravo, Paolo Rossi, magnetico, tanto più se a reggere le fila dello spettacolo è lui, solo lui, senza trucchi di scena, cambi d’abito, o spalle particolarmente brillanti: con il suo metro e cinquanta riesce a catturare i presenti, a farli ridere fino alle lacrime, a svelarsi per farsi amare, a dire, con genio e sregolatezza, quello che molti pensano, e non dicono, perfino a far saltare l’intervallo, visto che rimane sul palco, assieme ai musicisti, in uno spiazzante “voi fatevi i fatti vostri, lì sotto, che noi ci facciamo i nostri, qua sopra”. Quando Kowalski se ne va, dopo quattro, cinque chiamate in scena, alla fine, se ne sente già la mancanza: da lontano dovrebbero tornare più spesso non solo i fantasmi, ma anche le cose belle, specie se con uno sguardo lucido e disarmante come il suo.

Chiamatemi Kowalski – Evolution
scritto e diretto da Paolo Rossi
con la collaborazione ai testi di Carolina de la Calle Casanova, Emanuele Dell’Aquila, Carlo Giuseppe Gabardini, Riccardo Piferi
i pezzi originali tratti dal repertorio sono stati scritti con Gino e Michele, David Riondino, Giampiero Solari
aiuto-regia Carolina de la Calle Casanova
scene Emanuele Crotti
con la collaborazione di Mattia Lensi
direzione musicale dal vivo Emanuele Dell’Aquila
disegno luci Loris Bartolini
Una produzione Paolo Guerra per A.gi.di
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