Claudia lavora in un’agenzia di viaggi e la sera studio russo. La sua vita si svolge con una continuità abitudinaria; solo piccole manie compulsive fanno da contrappunto alla routine quotidiana. Una sera al corso di russo si presenta un nuovo insegnante di origine ucraina, Boris, un quarantenne di bell’aspetto e dall’aria intelligente. Tra Boris e Claudia nasce un’attrazione. Un giorno l’uomo chiede alla ragazza di ospitare per qualche giorno la cugina venuta dall’Ucraina. Claudia, titubante, alla fine accetta e così fa la conoscenza di Olga. Dopo l’iniziale diffidenza, tra le due è amicizia. Ma all’improvviso Olga scompare…
Un’ombra è un’ombra. Non si esce da questa tautologia. Che altro infine? Un riflesso, un alone, il residuo, l’eco di qualcosa. Di qualcosa. Immagine senza contenuto, un’ombra non è mai una cosa in sé, ma sempre l’ombra di qualcos’altro. Un’ombra è un’ombra, appunto. Non la puoi inseguire nè afferrare, eppur si vede, eppur si muove. Ma è un vedere senza oggetto, puro fenomeno ottico. Ed è un muoversi trainato, parassitario, immoto. Capita però che l’ombra scivoli via dal corpo, ne imiti gesti, movenze, si mascheri da corpo, prenda il suo posto. E di riflesso il corpo pian piano perda coscienza, vitalità, definizione, diventi ombra. Quando cominciamo a vivere come l’ombra? Difficile dirlo. Forse è l’esistenza stessa che scolora pian piano, smarrendo il suo significato.
Neanche il film fornisce risposte. Claudia vive nella ripetizione (lavoro, famiglia, amici), appiattita dalla monotonia di un’esistenza normale, di quella normalità che però perde quota ogni giorno. Quasi tutte le sere si ritrova sola nel suo appartamento; più volte ci viene mostrata a letto, tutta raccolta, quasi temesse di disperdersi come sabbia al vento. Nessuna relazione importante, mai una scossa. La ragazza non sembra punto preoccuparsene, non reagisce, abbraccia la sua apatia. Un’ombra. Marina Spada, al suo secondo lungometraggio, accetta di girare una vicenda minimale, dal budget esiguo (il film è costato poco più di trecentomila euro), ripresa con una mini-dv e risolta interamente sul piano della rappresentazione. Nota bene: senza onanismi d’autore. L’ombra è percezione, ineluttabile cappa che permea tutto: aria, terra, palazzi, individui. E diegesi. Allo spettatore è chiesto di entrarvi in medias res, tanto tutto accade a livello linguistico, nella messa in quadro, e il racconto cede il passo al suo discorso. La regia lavora di fino sul rumore semantico di ogni immagine, sulla durata (frequente il piano sequenza) da cui riverbera il senso.
La scommessa è uno sguardo nuovo sul malessere, scommessa che la Spada vince grazie a poche azzeccatissime scelte stilistiche, come l’insistenza su primi piani senza “oggetto” o la volumetria “solida” delle inquadrature, con le pareti che saturando due terzi del quadro lasciano uomini e donne ai margini. Di traverso, squarci documentaristici nel sottobosco dell’immigrazione e l’impietosa fotografia di Milano (prezioso il contributo del fotografo urbano Gabriele Basilico), che così vuota e inospitale non la si vedeva dai tempi de L’aria serena dell’ovest. Quarant’anni dopo Deserto Rosso dunque, la città (post)industriale si riscopre arida, disgregata e disgregante, “mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose”. Neanche le vittime cambiano, oggi come allora sono donne, ma con meno nevrosi rispetto al passato e più abuliche. Nell’era del post-femminismo il disagio cessa forse di essere incomunicabile afasia per divenire muta disperazione.
Titolo originale: Come l’ombra
Nazione: Italia
Anno: 2006
Genere: Drammatico
Durata: 87′
Regia: Marina SpadaCast: Anita Kravos, Karolina Dafne Porcari, Paolo Pierobon
Produzione: Ombre Film, Film Kairòs
Distribuzione: Istituto Luce
Data di uscita: Venezia 2006
22 Giugno 2007 (cinema)