“Ciò che abbiamo inventato è tutto autentico. Lettere a Tullio Pinelli” di Federico Fellini, a cura di Augusto Sainati

Come già accaduto con Georges Simenon, ecco un altro frammento dell’epistolario felliniano. In questo prezioso volumetto ci vengono offerte 15 lettere spedite dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli Ottanta a Tullio Pinelli che, assieme a Ennio Flaiano, è stato sceneggiatore per Fellini in tutta la prima parte della sua carriera. In realtà il rapporto di collaborazione, interrotto ai tempi di Giulietta degli spiriti, riprende col solo Pinelli anche nei più recenti Ginger e Fred e La voce della luna.

Per comprendere l’importanza del rapporto professionale e di amicizia che traspare da queste carte, è fondamentale l’intervista che il curatore ha fatto a Tullio Pinelli (classe 1908), con la quale si apre il libro. Con un’ammirevole precisione e memoria, il drammaturgo e sceneggiatore rievoca le tappe della collaborazione, indicando nomi, luoghi e date che permettono di leggere con più cognizione di causa le missive felliniane. Tra queste, grande interesse ci ha suscitato la prima che qui viene raccolta, databile 1949, dove Federico riferisce all’amico Tullio che Dino De Laurentiis e Ivo Perilli avrebbero voluto impegnare i due giovani scenaristi per rielaborare un soggetto di Perilli e Diego Fabbri, «ma quando ho letto l’incredibile stupidaggine che dovremmo sistemare e sceneggiare, mi sono sentito male» (p. 29). Ora, quella che secondo Fellini è una «incredibile stupidaggine» senza citarne il titolo, è un progetto tanto caro a Fabbri, e che costituisce il nucleo dal quale nascerà nel 1955 la pièce più famosa dello scrittore forlivese: Processo a Gesù.

La fumeria d’oppio esaltata per contrasto nella chiusa, è quella dell’omonimo film di Matarazzo del 1947, sceneggiato, per l’appunto, anche da Fellini e Pinelli. Un film che aveva evidentemente minori ambizioni del soggetto di Fabbri e Perilli. Certo, alla luce della carriera straordinaria che Fellini farà negli anni a venire, e soprattutto pensando ad alcuni dei suoi ultimi film, colpisce quel suo rifiuto di una vicenda dove «tutto è schematico, dialettico. Non è un soggetto è un teorema […]. Non ci sono personaggi, non c’è racconto», accuse che molti spettatori hanno poi rivolto anche al suo cinema. Peccato, comunque, che nell’apparato di note del volume non si faccia riferimento alla questione di Fabbri (chiamato scherzosamente «papa» a p. 30) e ampiamente documentata da Emanuele Nespeca in “Bianco e Nero” n. 557-558: “Processo a Gesù”: un progetto cinematografico? (pp. 134-143). Un po’ carente ci sembra anche la cura della lettera n. 14, risalente al tempo della lavorazione della Dolce vita. Fellini si lamenta di essere entrato in un periodo di crisi e che tutto ciò che fa gli sembra brutto. Avverte poi l’amico sceneggiatore di aver modificato «moltissime sequenze» relative al personaggio di Steiner e che «bisognerebbe inventare qualche cosa per far restare in piedi l’incontro con Paolino [sic]» (p. 55). E più avanti: «Forse Paolino [sic] è in questo stesso baretto dove Marcello telefona, e dopo la telefonata si trattiene a parlare con una ragazzina» (p. 56). Le possibili spiegazioni sono due: o si è letta male la calligrafia di Fellini e si tratta di Paolina (personaggio fondamentale di quel film), oppure c’è scritto veramente Paolino e allora dovremmo immaginare che a quello stadio di elaborazione la sceneggiatura prevedesse un ragazzo anziché la fanciulla immortalata da Valeria Ciangottini. In ogni caso una nota di chiarimento sarebbe stata utile.

Alle lettere di Fellini se ne aggiungono due di Pinelli, conservate in minuta. La prima riguarda il disappunto di Pinelli e Flaiano in occasione della conferenza stampa per Il bidone, nella quale Fellini si dimenticò di citare i nomi dei suoi due collaboratori e amici. L’altra, molto più recente, è un’interessante proposta fatta al regista di tradurre in immagini le storie di Giacobbe e Giuseppe narrate da Thomas Mann (progetto accarezzato anche da Luchino Visconti). Siamo a metà degli anni Ottanta e Pinelli rilegge quei romanzi a distanza di anni e sente il bisogno di comunicare all’amico la ricchezza e la pregnanza di quelle pagine che potrebbero prendere vita sullo schermo:
mi sono sentito affascinato dalle immagini di quelle tribù erranti in un mondo vastissimo, tutto da scoprire, poco popolato, passando dai deserti, al contatto con centri urbani di civiltà già molto evolute, idolatre, dedite a strani riti in onore di stranissimi Dei… E poi, e soprattutto, quel vivere in un mondo in cui il reale non era ben distinto dal divino, il sogno dalla realtà, la realtà dalla profezia; con incontri con esseri misteriosi, Angeli, inviati di Dio, e Demoni… Alberi e luoghi sacri che provocavano sogni profetici… Boschi abitati da divinità… Montagne da cui discendevano creature divine o semidivine… E tutto questo, accentrato intorno a vicende straordinarie e molto toccanti, umanamente. […]

Ho ritrovato, nella rilettura, le stesse emozioni di allora. Ma, emozioni a parte, ho ritrovato, con la conferma del fascino eccezionale di quei racconti e della «chiave» che Mann ha adottato per narrarli (ironica, pseudo-storica, acutissima, quasi fantascientifica) il «senso» che Mann ha attribuito a quel particolare bisogno di errare da un posto all’altro, in quel particolare momento: cioè la fondamentale irrequietezza dell’uomo, il suo insopprimibile bisogno di ricerca della verità, che spingono prima Abramo e Isacco, poi Giacobbe, a passare da una civiltà all’altra, dai contatti con una divinità all’altra, rifiutandole in fondo tutte, alla ricerca di un Assoluto, non mai raggiungibile e sempre intravisto e perseguito attraverso tragici errori, amori, cadute, illuminazioni e perdizioni (pp. 59-61).

Se pensiamo alla «ricerca della verità» e alla «fondamentale irrequietezza dell’uomo» espresse, poco tempo dopo, in modo un po’ pasticciato nella Voce della luna, ci viene spontaneo rimpiangere un progetto che forse avrebbe avuto delle basi più solide e dove – per riprendere lo spunto della prima lettera di Fellini – ci sarebbero stati dei personaggi e ci sarebbe stato il racconto.
Chiude il volume una puntuale analisi del curatore, dal titolo: L’invenzione dell’inautentico.

Federico Fellini, “Ciò che abbiamo inventato è tutto autentico. Lettere a Tullio Pinelli”, Marsilio, 2008, pp. 94, € 9,00.