Dopo aver assistito all’interessante conferenza stampa di presentazione non diremo più che Io sono l’amore è un film di Luca Guadagnino, ma diremo che è un film Luca Guadagnino e Tilda Swinton. L’attrice (e produttrice) inglese è a tutti gli effetti da considerare co-autrice della pellicola, che nasce dalla stretta collaborazione, e dalla profonda amicizia, tra i due cineasti.
La Swinton e Guadagnino avevano già lavorato assieme in The protagonists e nel corto The love factory. “Ci siamo conosciuti nel 1993 – dice il regista – quando le proposi un corto che non abbiamo mai fatto e, da allora, ci piacciamo”. “Io ho sempre lavorato con amici” aggiunge la Swinton “Ho iniziato con Derek Jarman e con lui ho lavorato in molti film. Luca è arrivato dopo che Jarman se n’è andato e rappresenta la continuazione dello stesso modo di lavorare. Con entrambi mi sembra di lavorare in famiglia, è un lavoro che nasce dall’amore. Siamo amici, parliamo tantissimo. Siamo soprattutto ‘film-friends’: per l’80% parliamo di cinema. Condividiamo molte cose. Ad esempio, l’idea di un’arte internazionale: crediamo che non abbia alcun senso un arte nazionale, gli artisti sono sempre internazionali. E poi vogliamo vedere e vogliamo fare lo stesso cinema. Io sono l’amore è nato sette anni fa ed è una storia basata sulla rivoluzione che scaturisce dall’amore. Ci ispiriamo al cinema classico, Hitchcock, Visconti, Antonioni, ma abbiamo l’aspirazione presuntuosa (“hybristic”) di renderlo più moderno, di spingerlo in avanti, di creare un cinema del nuovo millennio”.
Rispetto ai proclami della Swinton le ambizioni di Guadagnino appaiono più ragionevoli e realistiche: “abbiamo molto studiato Visconti e sono onorato quando si dice che il film ricorda Visconti. Sono consapevole dell’enormità delle differenze. Visconti è stato un cineasta incredibilmente innovativo. Ancora oggi le sue forme rimangono spiazzanti. Penso all’inizio di Senso, con i bizzarri movimenti sui palchetti della Fenice. Mi piace pensare a Io sono l’amore come la versione “highbrow” di Rocco e i suoi fratelli. Sono consapevole che oggi non ci sono più i mezzi per creare il cinema di Visconti o di Bertolucci. Il gattopardo all’epoca fu un film costosissimo che stava per mandare Lombardo a carte quarantotto. Quella è una stagione irripetibile. Però penso che, come attitudine, con un po’ di olio di gomito, si possa cesellare un cinema che sia meno televisivo di quello che si fa abitualmente. Occorre una maggiore riflessione sulla manifattura dei film, un’attitudine più da artigiani”. Come film italiano da questo punto di vista esemplare Guadagnino cita Gomorra.
Tra gli argomenti affrontati, si è parlato, ovviamente, di Milano. “Milano – dice Guadagnino – è la città in cui amo di più vivere. È una città con una stupefacente bellezza architettonica. Una bellezza discreta , che a volte si nasconde e che è la salvezza di questa città, che per il resto è alla deriva. Fare un film a Milano è pagare omaggio a questa bellezza”. Su questo, è interessante lo scambio di battute tra Massimiliano Finazzer Flory, assessore alla cultura del comune di Milano che introduce la conferenza stampa, e Pippo Delbono. Se il primo parla di un film che restituisce l’orgoglio a Milano e alla sua bellezza, Delbono dissente – amichevolmente ci tiene a precisare – dicendo che il film mostra non una “Milano bellissima”, ma una borghesia (anzi, un’intera società) “malata, morta”, “che ha perso la poesia, che è dentro a una formalità talmente estrema che ha perso l’anima”.
Non sono mancate, ovviamente, le domande, sulla corrispondenza con la realtà della borghesia rappresentata sullo schermo: esiste ancora? Tra gli spettatori c’è chi dice di sì, c’è chi dice di no. E poi: la famiglia Recchi adombra forse gli Agnelli? Guadagnino sgombra subito il campo da questa lettura: “non ci siamo ispirati alla famiglia Agnelli. Da questo punto di vista, l’unica cosa che ci interessava capire era la straordinaria torsione del collo di Marella Agnelli nella foto di Avedon, che è un’icona del costume italiano”.
Agnelli o no, per la Swinton Io sono l’amore è, nientemeno, che un film sul capitalismo. L’attrice dice che a Venezia incontrò Michael Moore e, scherzando, gli disse “se il tuo film è Capitalism: a LOVE story, il mio potrebbe intitolarsi Capitalism: a FAIRY story. “I personaggi vivono in una fiaba e hanno bisogno di credere in quella fiaba. Non vogliono pensare che la loro ricchezza si basa sullo sfruttamento, hanno bisogno di chiudere gli occhi di fronte al privilegio. Il nostro film non è documentario. È necessario che si facciano documentari che decostruiscano questa fiaba, ma il nostro film non lo è. Nel nostro film l’amore rompe questa finzione. L’amore ha un impatto rivoluzionario, esplosivo su questo perché nasce dall’onestà, dall’autenticità, dalla natura”.
Sentendo la Swinton parlare di capitalismo (e del suo disappunto alla famosa dichiarazione della Thatcher secondo cui “non esiste la società”) o dell’opposizione tra “vita costruita (“edited life”) e “vita autentica (“unedited life”) come leitmotiv del film, mentre Guadagnino rivendica l’attitudine “artigianale” del fare cinema, ci verrebbe da dire che, nella collaborazione tra i due, la Swinton sia la “teorica” del film e Guadagnino l’“artigiano”. Definizioni queste che non devono minimamente suonare riduttive per il regista italiano. Tutt’altro. Dove il film delude è nella sua ambizione di analisi e critica della società, dove il film sorprende e affascina è nella sua realizzazione “artigianale”. Ma di questo diremo nella recensione.
Milano, Cinema Colosseo, 15 marzo 2010:
Conferenza stampa di presentazione di “Io sono l’amore”