DA KUBRICK A TYKWER: PROFUMO DI SHINING

Profumo - Storia di un assassino

Tutti coloro che hanno recensito Profumo – Storia di un assassino , hanno citato l’aneddoto secondo il quale Stanley Kubrick, dopo aver tentato per anni di trasporre il romanzo di Patrick Süskind sul grande schermo, gettò la spugna dichiarandolo “infilmabile” (salvo poi buttarsi a capofitto in un progetto altrettanto ostico, che sfocerà nel postumo Eyes wide shut).
Si è visto come un veto del genere abbia pesato sulla ricezione del film sin da prima della sua uscita: alcuni hanno letto l’operazione di Tom Tykwer come un affronto al Maestro (se l’ha evitato Kubrick, a nessun altro è permesso provarci), altri l’hanno considerata fallimentare prima ancora di mettere piede in sala (dimostrando come il critico abbia già in mente la sua recensione prima di vedere il film, e plasmi la percezione dell’opera a seconda dell’idea che se n’è fatta a priori).

Detto questo, la citazione del suddetto aneddoto non è fuori luogo: su queste pagine ne ha parlato anche Gianluca Capaldo (relegando con eleganza la vicenda in chiusura d’articolo), ed anche per chi scrive il passaggio si è reso obbligatorio. Ma non per ragioni puramente cronachistiche o di gossip: Profumo non sarebbe certo il primo progetto a passare di mano in mano e di testa in testa fino a trovare il giusto “esecutore”. Il precedente kubrickiano, in questo caso, è parte integrante del lavoro di Tykwer, ne permea le atmosfere e la struttura, e ne ha certamente influenzato la scrittura.
Tykwer, divenuto famoso per l’insopportabile ma oramai cult Lola corre, ha affinato le sue capacità autoriali con i due (buoni) film successivi, La principessa e il guerriero e Heaven (da un progetto di Kieslowski, con un cast per la maggior parte italiano). Gli sceneggiatori di Profumo hanno alle spalle lavori come Il giardino di cemento (Andrew Birkin, che ne fu anche regista) e La caduta (Bernd Eichinger). Tre buone teste, sei buone mani, dunque, con lo spettro di Kubrick ad aleggiare su tutto e su tutti.

Rivedendo il film, una cosa salta agli occhi: Profumo altro non è che una riscrittura “en plein air” di Shining. I corridoi asfittici dell’Overlook Hotel si sono tramutati nelle labirintiche e bisunte strade di Parigi, lungo le quali passeggia, sospinto dal suo prodigioso olfatto, un catatonico Grenouille. Ad ogni angolo, come dietro ad ogni porta, si celano apparizioni, ricordi, segni, immagini orrorifiche. Anche il giovane profumiere, come Danny Torrance nel film di Kubrick, possiede uno shining, una “luccicanza” dalla quale è guidato: se il piccolo Danny è in grado di percepire la pellicola sottile che separa il mondo dei vivi da quello dei morti (e non solo), Grenouille scinde il fetore dai profumi, ed individua in questi ultimi la sua chiave personale per decifrare il mondo. Laddove l’ossessione della solitudine e la ricerca di una inesistente vena creativa aprono a Jack Torrance le porte della disperazione e della follia omicida, la caccia al profumo perfetto e ad un metodo infallibile per conservarlo in eterno portano Grenouille sulla stessa strada, in un declino non così lento ma certamente inesorabile.

Come non rintracciare la “mano” di Kubrick nel finale di Profumo, in cui Grenouille assiste inerte ad un’orgia come il Bill di Eyes wide shut: quest’ultimo la subisce, mentre il profumiere la provoca, ed è infatti un’orgia di carne e sensi, privata di ogni ritualità (e filmata con toni fotografici mai usati prima all’interno del film, e con un ralenti che evita per puro miracolo il ridicolo). Allo stesso modo, nel darsi in pasto al popolo fetido dal quale era nato e aveva invano tentato di riscattarsi, Grenouille imprime al racconto un movimento circolare, che è caratteristica costante del cinema di Kubrick. Profumo è un anti-romanzo di formazione, o forse un romanzo di anti-formazione, come lo sono Barry Lyndon e Arancia meccanica.

Peccato che il giovane attore Ben Whishaw, ispirandosi al suo “mito” Dustin Hoffman (casualmente presente nel cast – e se ci fosse stato Al Pacino?) trasformi Grenouille (e l’intero film) in un Rain Man delle essenze profumate, dalla mimica decisamente autistica (guardategli le mani, e certe torsioni del collo), mentre nelle intenzioni di Süskind il profumiere è un genio senza tanti fronzoli. E peccato che l’ambientazione parigina sommata alla voce narrante bassa e confidenziale puzzi (!) un po’ troppo di Amélie, come se ci trovassimo di fronte ad una rivisitazione “nera” del film di Jeunet. Su tutto, però, regnano sovrani un montaggio affilatissimo (specialmente all’inizio), una fotografia pastosa, densa e trasudante umori (il vero veicolo per la trasposizione degli odori in immagini) ed una musica (complice anche lo stesso Tykwer) dalle improvvise aperture strappa-applausi.
Inutile, ma inevitabile, chiedersi cosa ne sarebbe uscito se a distillare il tutto ci fosse stato l’infallibile Stanley…