Da una delle collane più prestigiose della narrativa italiana, arriva l’esordio letterario di Sandro Bonvissuto. “Dentro” si attesta subito con forza nel panorama letterario contemporaneo, rappresentando una delle più sorprendenti promesse di questa stagione letteraria.
Lontano dalla retorica e fuori dal tempo. Tre racconti che assecondano il sapore antico di una filosofia legata alla memoria e alla ricerca di un’esistenzialismo privo di artifici. Narrati in prima persona, i tre racconti che compongono Dentro di Sandro Bonvissuto (pagg.182, Einaudi,2012, € 17,50) sono una ventata d’aria fresca per la narrativa italiana. Scritti con uno stile originale e meticoloso, uniti a una ricerca stilistica impeccabile, le tre storie sono frutto di istantanee scattate in momenti differenti della vita di un uomo. Il primo, il più coinvolgente dal punto di vista emotivo, racconta l’esperienza del carcere e la sua possibile redenzione.
Non c’è un altrove, non ci sono vie di fuga ma solo muri (“il muro è il più spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto“) a distinguere il dentro dal fuori, la vita interiore dalla possibilità di un’isola in cui il dolore lasci spazio all’esistere. C’è l’inevitabile omaggio a Kafka, ma anche il tentativo di raccontare il male con una punta di ironia, esorcizzando il nulla che ci circonda, un nulla invalicabile ed eterno. Perché è proprio il tempo, con le sue convenzioni sociali, a scandire i secondi che raccontano un’intera esistenza attraverso le sfumature di grigio più accese. Ma se si rimane sorpresi dalla maturità con la quale Bonvissuto affronta un tema così ostico, non si può che sgranare gli occhi nei due “pezzi” successivi, frammenti che integrano ed esplicitano al meglio la forza del libro, rappresentandone forse la parte migliore.
Nel secondo e nel terzo racconto, infatti, l’io narrante torna bambino e racconta la complessità dei rapporti umani, la felicità che precede la conoscenza della sconfitta, il rumore dell’innocenza perduta e l’ingresso nell’età adulta. Il mio compagno di banco e Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta, inseguono con maggiore meticolosità il tempo, ripropondendo in un’altra chiave di lettura quei “muri” e quel “dentro” la cui accezione tende a moltiplicarsi.
Se nel carcere il muro è un essere perfetto e invalicabile dietro il quale nascondersi e disperare, nel secondo racconto rappresenta la linea di demarcazione fra il bambino e l’adulto, fra la solitudine e la ricerca dell’altro da sé. Nel terzo è lo spazio, la scoperta di un luogo esotico proprio a due passi da casa, a rappresentare il segno di una prima sconfitta (l’importanza di saper andare in bicicletta e l’incontro con l’altro sesso) e la conseguente – e improvvisa – metamorfosi che tutto trasforma. Non è consueto un esordio così ruvido, così maturo. Un esordio reso ancora più complesso dal peso delle parole e dai continui rimandi ai grossi interrogativi del novecento, tra Sartre e la scoperta dell’inconscio.
Un libro claustrofobico che non cede mai al pietismo ma che, al contrario, crede nell’eterno stupore di chi vive (e legge), costringendoci a fare i conti con le pieghe del tempo, o a guardare nelle crepe di un muro. Nulla è così perfetto da non poter essere abbattuto.
DAL LIBRO: “C’era un uomo lí dentro che tutti i giorni, all’ora d’aria, usciva con gli altri in cortile, lo attraversava interamente e arrivava, camminando a passi lenti, fin sotto il muro di cinta, ma talmente sotto che riusciva a toccarlo col naso. Per guardarlo cosí da vicino da non vederlo piú. Una volta l’avevo fatto anch’io. Ero arrivato talmente sotto il muro da perdere la visione laterale degli occhi. Talmente sotto il muro da vederne solo il colore. Compresi allora la seguente cosa: il muro è il piú spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto. E ti accorgi di tutta la sua potenza soltanto quando vedi un muro in funzione. Perché non tutti i muri funzionano; quelli che incontriamo nella vita di tutti i giorni, ad esempio, non sono veri muri. Sono interrotti, oppure hanno delle porte, insomma si possono in qualche modo aggirare o attraversare. È come se fossero degli ordigni disinnescati. Dei muri a salve. Quelli che stanno lí dentro no. Funzionano. E bene. Non c’è niente che ti uccide come un muro. Il muro fa il paio con delle ossessioni interne, cose umane, antiche quanto la paura. Nonostante le apparenze, il muro non è fatto per agire sul tuo corpo; se non lo tocchi tu, lui non ti tocca. È concepito per agire sulla coscienza. Perché il muro non è una cosa che fa male; è un’idea che fa male. Ti distrugge senza nemmeno sfiorarti.
Lí dentro ho visto anche gente piangere davanti ai muri, davanti alla caparbia ostilità della materia. Perché, se funzionano, i muri sono tutti del pianto. Stanno lí. Mille volte li guardi e mille volte li vedi fermi. Non hanno incertezze. Non hanno volto. Non hanno sentire. Non serve una mano malvagia che li muova. Fanno male da soli. Ed è inutile farci amicizia; se li tocchi, le tue dita non lasciano segni su quella materia. Il muro di recinzione è certo una cosa ostile all’umanità. E costruire un muro è fare una cosa contro. Perché ormai è chiaro che i muri non possono essere a favore. E purtroppo non esistono muri fatti contro qualcosa, perché i muri sono sempre fatti contro qualcuno, contro gli esseri viventi. Quando costruite un muro dovete saperlo che sarà certamente contro qualcuno, anche se non sapete contro chi. Bisognerebbe rifiutarsi di costruire muri di cinta. Anche se ci pagassero.”