Orizzonti
Nelle steppe desolate della Russia un giovane medico tiene una sorta di avamposto della civiltà e della medicina nella sua casetta di pietra e paglia. Gli abitanti dei villaggi vicini si rivolgono a lui per ogni evenienza, ma non disdegnano di portargli a vedere anche i propri animali, o ancora scambiano volentieri due chiacchiere con l’unico uomo di cultura a disposizione nel raggio di chi sa quanti chilometri. La vita sembrerebbe scorrere quieta in questa landa abbandonata da Dio, ma il dramma è sempre dietro l’angolo.
Kalatozishvili è il nipote di un grande del cinema sovietico, il quasi omonimo Kalatozov (ma in questo caso si tratta solo di una versione russizzata: anche l’autore di Quando volano le cicogne e di Yo soy Cuba ha lo stesso cognome del meno talentuoso discendente). Non è un regista di primo pelo, ma ora arriva sulla scena internazionale di una manifestazione come quella veneziana forte di alcuni premi conquistati in patria proprio con questo suo Campi selvaggi. Sparuti gruppi di personaggi si perdono in una natura battuta da un sole cocente ed arida di consolazioni; pietre roventi e colline brulle ricordano un Far West in cui il giovane medico protagonista è andato a finire anche per sfuggire ad una storia d’amore travagliata.
Si avvicendano strani personaggi che rischiano la morte per il troppo bere, altri che si preoccupano della propria mucca più che della propria salute, lo “sceriffo” del luogo che fatica a tenere sotto controllo certe teste calde, e infine una coppia di innamorati che non ha trovato niente di meglio che cercare di farsi fuori vicendevolmente. Il paziente ed imperturbabile dottorino guarda con condiscendenza questa varia umanità, si assume pure un fine educativo secondario (per quanto non dichiarato) nei confronti dei suoi buoni selvaggi, ma in fondo il quieto (e un po’ ebete) sorriso stampato sul suo volto ci rivela che non crede poi troppo alla possibilità di cambiare ritmi secolari in una comunità rurale in fondo sana, ma solo un po’ selvaggia, come da titolo.
Il film prova a sollevarsi dalla mera trama, ma la successione di scene e di episodi ad avviso di chi scrive stentano ad imprimere una dimensione superiore alla pura vicenda. Sì, certo, si può ritirare dal cappello della letteratura un buon Cechov d’annata (nel cinema russo è un vizio di fabbrica a tratti insopportabile), con la figura del dottore “di periferia” che compie con abnegazione e senza eroismi una piccola grande missione; ma sarebbe un po’ poco e nient’affatto una novità, non foss’altro che, appunto, da Mikhalkov in giù, i cechovismi sono stati già trattati a iosa da quelle parti del mondo cinematografico. Rimane una uggiosa sensazione di aver assistito ad una tranche di vita organizzata orizzontalmente, per scenette, e senza una ristrutturazione sintagmatica o semantica che motivi l’esistenza della pellicola. Se si voleva fare la reclame ad una delle professioni più nobili del mondo, bastava andare ad intervistare Gino Strada.
Titolo originale: Dikoe Pole
Nazione: Russia
Anno: 2008
Genere: Drammatico
Durata: 104′
Regia: Mikhail KalatozishviliCast: Oleg Dolin, Daniela Stoyanovich, Aleksandr Ilyin, Aleksandr Ilyin Jr., Yuri Stepanov, Roman Madianov, Irina Butanayeva, Aleksandr Korshunov
Produzione: Studio BarmaleiData di uscita: Venezia 2008