“ENDLESS WIRE” DEGLI WHO

Ventiquattro anni dopo “It’s hard”, gli Who tornano a pubblicare, tra l’indifferenza generale, uno studio album. Non basta obiettare che del leggendario quartetto sono rimasti solo Pete Townshend e Roger Daltrey: si tratta di un evento di portata musicale storica, che avrebbe meritato maggior risonanza mediatica da parte degli addetti ai lavori.

In un’intervista di qualche anno fa, Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam, diceva di odiare gli Who perché avevano inventato e fatto tutto prima degli altri, lasciando a quelli come lui solo le briciole. E’ la pura e semplice verità, prendere senza discutere: non esiste gruppo paragonabile agli Who per influenza esercitata sul rock successivo. Oggi, il chitarrista e mastermind Pete Townshend ha ancora creatività e forza per scrivere emozioni, e dopo ventiquattro anni decide di immortalarle nuovamente con la voce di Roger Daltrey: gli Who sono tornati con un nuovo disco.

Orfani dal 1978 del batterista Keith Moon e dal 2002 del bassista John Entwistle, negli ultimi anni gli Who si sono esibiti dal vivo accompagnati da Zak Starkey e Pino Palladino, emozionati compagni di viaggio senza la velleità di sostituire l’insostituibile. In Endless Wire, a partire dal richiamo iniziale di Baba O’Riley, nonostante gli altri musicisti presenti, l’ascoltatore non può che immaginare solo Pete e Roger. Fragments, che apre l’album, è uno degli episodi più positivi ed ispirati del lavoro, che ha nelle splendide Mike Post Theme e Black widow’s eyes le canzoni migliori della sua parte iniziale: la prima, a tratti epica e a tratti scanzonata, riflette su come la televisione possa disegnare dentro le persone emozioni che non sono più capaci di provare nella vita reale. La seconda, interpretata intensamente da Daltrey, descrive il folle amore che un uomo prova guardando gli occhi (“the most penetrating and beautiful eyes”) di una terrorista che si è appena fatta saltare in aria. La religione è presente come tema dominante nell’intero album: A man in a purple dress canzona il bisogno di vestirsi in maniera strana per poter parlare di Dio, e Two thousand years ipotizza che il tradimento di Giuda sia in verità un dettame di Gesù stesso. Come è evidente, le storie raccontate da Townshend sono ancora intense, estreme, assurde e per questo capaci di scoprire la sensibilità dell’ascoltatore.

La seconda parte dell’album è una mini-opera, Wire & Glass, ispirata dal racconto The Boy who heard music dello stesso Townshend: tre ragazzi formano una band, il cui primo successo è l’opener dell’album Fragments, scoprono i disegni di un progetto rivoluzionario per diffondere la musica in modo globale, “per unire” le persone, e cercano di realizzarlo. L’opera è snella, come da consuetudine, con componimenti brevi ed orecchiabili, e ha in Mirror Door il suo pezzo più riuscito e “tradizionalmente Who”, dagli accordi iniziali al ritornello trascinante. La band inglese ha certamente molto da dire e da dare: peccato che ad ascoltare e ricevere siano in così pochi, anche per le deficienze di media che non sanno e non vogliono farsi veicoli di musica importante ma non più sulla cresta dell’onda. Gli Who, per dichiarazione dello stesso Townshend, “non sono i vecchi Who, ma qualcosa di diverso”. Di sicuro, da sessantenni e dopo una vita di musica alle spalle, hanno mantenuta intatta la loro capacità di emozionare. Peccato, si diceva, che siano in pochi ad emozionarsi ancora: peccato per loro, si intende.

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