“Echoes, Silence, Patience and Grace” dei Foo Fighters

Dopo il caffè lungo, il succo concentrato

Riducendo la prolissità del doppio ‘In your honor’, attraverso una scelta meno radicale, i FF realizzano la fusione in un singolo dischetto dell’alternanza elettrico/acustico, con una maggior propensione per il primo polo. Nonostante le varianti, ‘Echoes…’ riesce ad essere un tipico disco dei FF, e ad evitare d’incagliarsi nelle secche del ‘mestiere’ grazie al lirismo di Dave Grohl.

Sul binario elettrico del precedente lavoro in studio, la band riparte discretamente, riprende la sua corsa: dalla prima, furiosa, canzone si passa però subito all’intro acustico arpeggiato di ‘Let it die’, una canzone che cresce progressivamente, un modulo a cui i FF ci hanno abituati lungo il corso della loro cospicua discografia. L’alternanza sarà il comune denominatore dell’intero disco.
Dopo l’avventura del live unplugged (‘Skin and bones’, 2006), singoli come ‘The pretender’, – che ha un’insospettabile affinità iniziale con ‘Song for clay’ dell’ultimo disco dei Bloc Party – oppure ‘Erase replace’, ‘Long road to ruin’, ‘Cheer up boys…’, rappresentano la continuità con il passato, per una band che oggi incarna l’alternativa mainstream, appena un po’ più credibile, al veteromoralismo d’accatto di gruppi come i Green Day.

Quando il ritmo cala e la furia iconoclasta cede il passo allo struggimento e alla malinconia, Grohl si destreggia tra chitarre acustiche e pianoforti, offrendoci scontati brani melodici; l’età avanza anche per lui, e non è un male a priori; i ritmi lenti, dilatati, però fanno da stallo allo scorrere complessivo di questo disco. In questi casi i riferimenti, dichiarati in una recente intervista, sono gli Steely Dan, gruppo amato dal leader dei Foo’s.

Il ‘simbolo stimolante’ radicato nelle menti di molti fan di lunga data dei FF – ma anche, ancor prima, dei Nirvana – fatica però a vacillare: Grohl era (è) il batterista dei Nirvana; oppure, Grohl è (era) il rocker voce e chitarra (distorta!) di un gruppo spaccone, autoironico e moderatamente grottesco. Più in generale, se si legittima a Dave Grohl la libertà di suonare quello che più gli piace, chi sa qual è il motivo? No, probabilmente non è neanche l‘autoreferenzialità di aver suonato la batteria nei Nirvana. Dave Grohl, al di là del suo passato quindi, ha l’immagine, il suono e le parole giuste per vendere tanti dischi e diventare quel simbolo in cui così tanti si identificano. Come i Green Day, appunto; o Avril Lavigne per dire. Solo, giustamente anche, con molta più credibilità. C’è un’altra precisazione importante: per molti il simbolo-Grohl non è quello sopracitato, è un’altra cosa, e, se vuole, può vendere anche un disco di mazurke; basta che ci siano però un paio di canzoni con tre accordi di chitarra, una bella melodia e due urla delle sue. Come dire: ogni considerazione stilistica viene meno.

Ma per fortuna non vuole farlo, il disco di mazurke, e qui inserisce, proprio nel cuore del disco, romanticamente, ‘The ballad of beaconsfield miners’; una canzone strumentale, ispirata dalla commovente storia dei due minatori intrappolati nei tunnel sotterranei dove lavoravano; in quel tragico contesto chiesero un I-Pod con le canzoni dei Foo Fighters, “per tirarsi un po’ su”, mentre aspettavano speranzosi di essere salvati; di essere “tirati su”. Alla lettera.