Esercizi di genio

Un commento ai Dodici Studi op. 10 di Frédéric Chopin

Si può affermare che il genere dello studio pianistico da concerto sia nato il 2 novembre 1830. Ha infatti tale data un manoscritto non autografo, il più antico che ci sia pervenuto, su cui sono riportati i due Studi op. 10 n. 1 e n. 2 di Frédéric Chopin.

I lavori certamente furono ideati prima di questa data. A questo proposito è interessante notare che tali due lavori sono qui intitolati Exercice 1 ed Exercice 2; il compositore infatti li aveva realizzati per un fine molto pratico, appunto come esercizi tecnici ad uso personale per studiare dei passi di notevole difficoltà presenti nel suo Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 op. 11. A venti giorni dalla prima esecuzione, il 17 marzo 1830, Chopin confidò all’amico Wojciechowski di disperare di riuscire ad imparare in modo sicuro il pezzo in un così breve tempo, senza l’apporto di adeguati “esercizi”. Allo stesso amico aveva annunciato, il 20 ottobre 1829, di avere composto un “grande Esercizio secondo il mio modo”; il 14 novembre dello stesso anno annotava “Ho scritto un paio di esercizi”. Il periodo di composizione è comunque circoscrivibile tra la fine del 1829 e l’inizio del 1830, periodo in cui lo “studio” pianistico era ritenuto ancora un genere minore, essenzialmente propedeutico allo studio di brani di maggiore difficoltà, senza un particolare valore artistico. E’ vero tuttavia che con tale genere si erano cimentati anche musicisti molto noti, i cui “Studi” sono ancora oggi praticati dagli studenti di strumenti a tastiera: basti ricordare gli Essercizi per gravicembalo di Domenico Scarlatti, il Gradus ad Parnassum di Muzio Clementi, gli oltre 1000 Studi di Carl Czerny, di indubbi interesse e importanza. Ma nessuno di questi pensò mai di dare a tali composizioni “qualcosa” che andasse oltre la tecnica, che li rendesse degni di essere eseguiti in una sala da concerto. Chopin fu il primo ad effettuare tale operazione, e creò delle composizioni “bellissime a dispetto del brutto nome”, come disse Alfred Cortot, applicandosi in modo così attento e geniale a questo genere musicale tanto da esplorarne tutte le potenzialità, suggerendo le molteplici possibilità di sviluppo che poi furono attuate da compositori come Liszt, Rachmaninov, Skrjabin.

La prima raccolta di studi, l’op. 10, fu composta da Chopin fra i diciannove e i ventidue anni di età, e fu pubblicata contemporaneamente a Lipsia, Parigi e Londra nel 1833, con la dedica a Franz Liszt. A partire dai due primi Exercices, in cui il fine tecnico è ancora abbastanza evidente, il compositore sviluppò una serie di idee musicali originali, ciascuna connessa ad un ben determinato problema tecnico. L’ispirazione di Chopin fu pienamente originale e personale, ma un primo spunto per lo stile e la difficoltà di questi studi può essere venuto dall’ascolto di alcuni concerti tenuti a Varsavia dal violinista Niccolò Paganini, che in quel periodo ispirò molti compositori (tra cui Schumann) con il suo eccezionale virtuosismo. E infatti i Dodici Studi op. 10 mantengono al loro interno molte caratteristiche del linguaggio paganiniano (a volte con riferimenti espliciti alla tecnica violinistica) unite tuttavia ad elementi tipici dello stile e dell’esperienza di Chopin.

Lo studio con cui si apre l’opera (Allegro, do maggiore) prova proprio questo fatto: le cascate di arpeggi affidate alla mano destra sembrano rinviare ad un passo violinistico, cosa confermata anche dalla scarsa presenza della mano sinistra (il cui pentagramma non sarebbe presente in una partitura per strumento ad arco) che si limita a fornire la base armonica sotto forma di lunghe ottave. Inoltre si dice che Chopin amasse insegnare questo studio ai suoi allievi perché lo eseguissero quasi a “colpi d’arco”. Tuttavia il compositore, aprendo la raccolta con un brano la cui base tecnica è l’arpeggio, sembra volersi rifare anche ad una tradizione per cui il preludio ad un gruppo di pezzi andava sempre costruito sotto forma di serie di accordi spezzati; così alcuni hanno visto in questo studio un rifacimento del primo Preludio del primo libro del Clavicembalo ben Temperato di Johann Sebastian Bach, opera molto legata all’esperienza pianistica personale di Chopin.

Il secondo studio (Allegro, la minore) propone invece dei passaggi in scala cromatica, indicati “Sempre legato”, affidati alle ultime tre dita della mano destra, le più deboli. Le altre due dita e la mano sinistra effettuano accordi di sostegno. Lo studio che segue (Lento ma non troppo, mi maggiore) è certamente più melodico, e forse è anche il più noto della raccolta. Chopin stesso disse che il tema d’apertura costituiva la più bella melodia da lui mai scritta. Lo studio è tripartito, con una sezione centrale indicata “Poco più animato”. Lo Studio n. 4 (Presto, do diesis minore) presenta all’esecutore difficoltà come il sincronismo delle due mani in movimento rapido e il lavoro del pollice sui tasti neri. Quest’ultima caratteristica tecnica è esasperata nello studio successivo (Vivace, sol bemolle maggiore), in cui la mano destra tocca solo tasti neri. Lo Studio n. 6 (Andante, mi bemolle minore) ha come base la resa della cantabilità, unita ad una struttura polifonica delle linee della mano destra e della mano sinistra, l’una indicata “Con molta espressione”, l’altra “Sempre legatissimo”. E’ ritenuto uno degli studi più d’avanguardia di Chopin, per armonia e linea melodica. Lo Studio n. 7 (Vivace, do maggiore) ha come fine la precisione nell’attacco di note doppie, terze e seste, e si sviluppa in modo simile ad una toccata, dunque con forte connotazione virtuosistica. Segue un nuovo studio basato su arpeggi (Allegro, fa maggiore), forse ancora risalente alla giovinezza del compositore. Sono richieste qui all’esecutore agilità nel passaggio del pollice e capacità di estensione della mano destra. L’estensione della mano sinistra è invece curata nello Studio n. 9 (Allegro agitato, fa minore); la mano destra la segue elegantemente con figurazioni ricche di note puntate. Il n. 10 della raccolta (Vivace assai, la bemolle maggiore) sembra ispirare un moto perpetuo; a prescindere dalle difficoltà tecniche, è interessante all’ascolto il continuo spostamento in avanti del tempo forte delle battute. Segue uno studio (Allegretto, mi bemolle maggiore) basato sulla tecnica degli accordi arpeggiati, che costituiscono l’intera composizione. Particolare enfasi è data anche dai continui cambiamenti armonici.

La raccolta si conclude con uno studio passato alla storia con il titolo di “Studio rivoluzionario”, in base alla leggenda secondo cui l’autore lo avrebbe composto a Stoccarda nel 1831, dopo avere avuto notizia della caduta della sua città natale, Varsavia, ad opera dell’armata russa. Questo “Allegro con fuoco” (do minore) è effettivamente pervaso di un certo spirito inquieto, dato dal movimento incessante della mano sinistra e dalle potenti ottave della destra. Molto particolare è la conclusione, con quattro accordi accentati, di cui gli ultimi due, in do maggiore, non sembrano chiudere in modo deciso il pezzo, lasciando un’impressione di sospensione, che alcuni hanno letto come una ennesima “sfida” dettata dal sentimento rivoluzionario dell’autore.

Non sappiamo se questa raccolta di studi fu concepita per essere eseguita integralmente in un unico concerto, come sembra suggerire il fatto che dieci dei dodici studi sono uno nella tonalità relativa dell’altro. Ma l’ascolto di questi pezzi così accostati è senza dubbio prova indiscutibile di quelli che furono il genio e il virtuosismo di Frédéric Chopin.