Innanzitutto qualche riga per sgombrare il campo dalle incomprensioni: Fatboy Slim è un grandissimo artista, con il fiuto per le hit ed un innato senso del ritmo, dotato di un’idea di suono decisamente originale che lo contraddistingue sia come autore di materiale proprio, sia come produttore e remixer di materiali altrui. Se è vero che i suoi dischi più recenti non sono all’altezza dei loro predecessori, gli va dato atto che in quanto a intelligenza, spudoratezza e ruffianeria nello scegliere i dischi da suonare a concerti e dj-set, Norman Cook è imbattibile.
Della serata a Brighton Beach di qualche anno fa, uno dei più grandi eventi dal vivo nella storia della musica dance, restano un CD e un DVD che restituiscono solo in parte l’impatto trascinante che un uomo solo, al comando di due giradischi e un mixer, può avere su una folla di migliaia di persone.
Il concerto alla spiaggia del faro di Jesolo, il 6 Agosto, poteva essere l’occasione per verificare in prima persona la portata di un tale evento. Simili i contesti (spiaggia “in”, musica dance, spropositata lunghezza della serata, sei ore più after hour in discoteca), ma diverse le politiche: arenile sgomberato non senza proteste dei bagnanti a metà pomeriggio, recinzione di un tratto di terra (e di mare!) tra l’antipatico e il classista, prezzo d’ingresso forse non esoso ma certamente esclusivista, buttafuori a iosa nemmeno fossimo ad una festa privata. E una domanda che serpeggia nell’aria: come si fa ad ingabbiare la musica?
Si inizia alle 18, ma Fatboy Slim arriva solo col buio, alle 21.30. Prima di lui, una mano anonima concatena brani house senza una particolare logica, ma almeno senza soluzione di continuità. Appare il Nostro, fra schermi luminosi con video stroboscopici, manco fossimo al concerto di Madonna (in contemporanea, a Roma). La sua fetta di serata parte bene: un vecchio dialogo rubato a chissà quale film di fantascienza proietta il pubblico in un’altra dimensione, e ad aprire le danze emergono le prime note di “Praise you”. Folla in delirio per uno dei brani più caratteristici di Fatboy Slim, ma l’illusione dura poco. Dopo qualche minuto il dj-set ripiomba nell’anonimato. Musica house più o meno ben assortita, qualche piroetta sui piatti, qualche frecciatina al tormentone del momento (quell’insopportabile po-po-po mondiale che poi altro non è che “Seven nation army” degli inconsapevoli White Stripes), qualche brano più riconoscibile per tenere alta l’attenzione (“Crazy” degli Gnarls Barkley, alla faccia dell’originalità).
Tutto il resto, come cantava il Califfo, è noia. Noia, sia inteso, per chi ama il “vero” Fatboy Slim: quello che da un centinaio di vecchi vinili tira fuori un suono tutto nuovo; quello che dall’edito estrapola l’inedito; quello che si mantiene in bilico tra i bassi pompati della musica house e i suoni un po’ vintage del funk e del soul (e dei suoi “brothers”); quello che sa trasformare la ripetitività in canzone, e che sfregia brani già noti con un’ironia tagliente; quello, insomma, che fa ballare ma sa anche farsi ascoltare, e che sa unire la sua anima commerciale ad una incessante e mai secchiona opera di ricerca.
Di sicuro, però, Fatboy Slim ha dato prova di essere un artista intelligente, sensibile alle aspettative del pubblico, e in questo senso un grandissimo intrattenitore. Ha dato alla folla ciò che la folla si aspettava, e quindi forse la colpa della deriva della serata è dovuta non a chi vi ha suonato ma a chi vi ha partecipato. Per spiegarci meglio: si respirava l’aria da “discoteca-italiana-in-località-balneare”, un genere che dovremmo brevettare perché ce l’abbiamo solo noi. Aria di figli di papà che si scuotono al ritmo delle inezie più commerciali del momento. Aria, insomma, di perniciosa spocchia. Un’aria che Fatboy Slim deve aver usmato, e sulla quale ha modellato la scaletta della serata. Più rumore, meno suono; più velocità, meno “groove”; un dj-set più piacione, meno sardonico.
La vera festa, forse, è fuori dal recinto, dove la musica da ballare si trasforma in musica da ascoltare (una sorta di concerto da camera, solo un po’ più rumoroso) e la calca in bivacco; e dove fra una birra e l’altra c’è sempre il furbetto che scavalca le recinzioni e tenta di entrare gratis, riuscendoci quasi sempre. Fuori dove, non avendo pagato il biglietto, c’è chi, annoiato, insofferente o deluso, si alza e se ne va, senza nemmeno aspettare i fuochi d’artificio.