Nella conferenza stampa milanese di presentazione del suo ultimo film, Gabriele Muccino esordisce parlando dei motivi che l’hanno spinto a tornare sui personaggi de L’ultimo bacio: “Baciami ancora nasce dalla voglia di raccontare quello di cui sono testimone e protagonista, dalla necessità di raccontare il mondo in cui ci muoviamo, un mondo che ci fa smarrire spesso con la sua comunicazione nevrotica e che ci lascia sprovveduti, disorientati”. “L’ultimo bacio era un film su gente che non sapeva affrontare se stessa: la paura era il grande denominatore comune. Qui invece il catalizzatore è il senso del ritorno. I personaggi capiscono che stavano allontanandosi da se stessi. In questo film la donna è il punto di riferimento al quale si ritorna nel tentativo di trovare un’intesa. È perciò un film sulla pacificazione con se stessi e con gli altri, sull’importanza di trovare un equilibrio”.
Muccino dice anche che i personaggi de L’Ultimo bacio “erano cresciuti dentro di me. Come Denys Arcand che dieci anni dopo Il declino dell’impero americano riprende gli stessi personaggi nelle Invasioni barbariche o Ingmar Bergman che, trent’anni dopo Scene da un matrimonio, riprende gli stessi personaggi in Sarabanda. Il motivo per fare un sequel è che si vuole continuare a far vivere questi personaggi che sono burattini: si vuol dare a questi burattini la possibilità di essere Pinocchio”.
Per parte nostra abbiamo rivolto al regista due domande, riprendendo alcune perplessità che abbiamo espresso nella recensione al film. La prima riguarda le differenze stilistiche tra L’ultimo bacio e Baciami ancora e la minor brillantezza registica del sequel. Il regista dice di sentirsi in una posizione diversa rispetto a dieci anni fa: “Oggi non devo più dimostrare di essere bravo a muovere la macchina da presa. Sento di non avere questa necessità narcisistica e posso permettermi il lusso di nascondermi e di far parlare la storia. C’è meno esibizionismo: i movimenti si notano meno perché la camera si muove più organicamente e questo credo sia un pregio”.
La seconda riguarda i numerosi product placements: non sono forse esagerati in questo film? E la loro presenza non intacca la libertà di un autore? Su questo punto interviene dapprima il produttore Domenico Procacci (“i finanziamenti pubblici diminuiscono, il valore dei film nei vari passaggi diminuisce e quindi il product placement, che è legalmente riconosciuto, è un’opportunità”). Muccino aggiunge di non sentirsi in alcun modo condizionato dalla presenza dei marchi e considera le polemiche sulla questione come provinciali. Gli fa eco Pierfrancesco Favino: “in America i vari marchi sono sempre presenti.
Uscirà un film che si intitola How Starbucks saved my life, che il marchio ce l’ha addirittura nel titolo. Perché questo atteggiamento solo nei confronti dei film italiani?”. In attesa di How Starbucks saved my life possiamo prevedere che sulla questione Baciami ancora susciterà polemiche e che queste vedranno opposti, come al solito, “apocalittici” e “integrati”. Per parte nostra sulla questione preferiamo una posizione pragmatica che parta dal riconoscimento che viviamo in un mondo di marchi e che il nostro immaginario, i nostri desideri sono fatti anche di marchi: perché non dovrebbero entrare nelle storie che il cinema racconta? E perché se vi entrano non dovrebbero essere utilizzati dai produttori per ricavarne un po’ di ossigeno finanziario? Non si tratta dunque di fare polemiche “moraliste”.
La questione è di uso narrativo dei marchi. Il recente (500) giorni insieme offre un buon esempio: il marchio Ikea ha una presenza molto forte che però non disturba perché ha una necessità drammaturgica che la “giustifica”. Se i produttori ne hanno tratto finanziamenti buon per loro. Il problema in Baciami ancora non sta solo nella quantità dei marchi ma sta soprattutto nel fatto che questi ci vengono, per così dire, “sbattuti in faccia” senza essere elaborati e giustificati narrativamente.