Gianfranco Ferroni

La “GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea” di Bergamo presenta una esposizione dedicata a Gianfranco Ferroni presso la sede di Palazzo della Ragione

“La visione del pittore non è più sguardo su un di fuori, relazione meramente ‘fisio-ottica’ col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile e il quadro, infine, può rapportarsi a una qualsiasi cosa empirica solo a condizione di essere innanzitutto ‘autofigurativo’; può essere spettacolo di qualche cosa solo essendo ‘spettacolo di niente’, perforando la ‘pelle delle cose’ per mostrare come le cose si fanno cose, e il mondo mondo.” Maurice Merleau-Ponty in L’occhio e lo spirito, 1960.

Si è voluto iniziare a scrivere di Gianfranco Ferroni (Livorno, 1927 – Bergamo, 2001) citando un brano del famoso filosofo francese, dato che è possibile riscontrare delle analogie concettuali fra i due maestri. L’opera del celebre pittore, infatti, non vive solo per se stessa, non rimane chiusa dentro i rigidi limiti della forma, anche se la sua espressione è assoluta, pulita, intangibile. Anzi, ha delle ripercussioni, dei rimandi ad un di là, conserva sensi e significati che non si stemperano solo negli elementi dell’immagine, ma la dilatano, la arricchiscono, la fanno sbucare da profondità a volte imperscrutabili di pensiero, di sentimento, d’intelletto, raccogliendone entro l’immagine i moti, le idee, le reminiscenze di un’intera esistenza e di una cultura vissute in armonia assoluta con l’opera stessa.

Ora la “GAMeC” di Bergamo ospita una “personale” di Gianfranco Ferroni – a cura di M. Cristina Rodeschini, Marco Vallora e Marcella Cattaneo – scaturita da un progetto tra le città di Milano e Bergamo, sviluppandosi lungo un percorso espositivo che rende partecipi due spazi: “Palazzo della Ragione” a Bergamo, in Città Alta e successivamente “Palazzo Reale” a Milano.

Per meglio evidenziare la produzione dell’artista c’è l’importante contributo dell’allestimento, opportunamente progettato dall’architetto Mario Botta, che inizia con una sorta di “tempio” a tutto sesto in cui sono esposte quindici opere, un concentrato di ciò che la rassegna propone. Segue l’ubicazione della maggior parte dei lavori in disposizione cronologica, per poi concludere con una bella parete-quadreria, ove si è voluto condensare e raffigurare gli oggetti preferiti da Ferroni, diversificando nelle diverse tecniche il suo procedimento creativo.

Con questa “antologica”, formata da oltre cento opere fra oli, incisioni e fotografie in grado di ripercorrere le tematiche predilette dall’artista, i promotori della mostra vogliono far conoscere al pubblico le ultime novità sulla ricerca del demiurgo legato alla città di Bergamo. Ferroni vi ha trascorso ben due decenni proprio nei pressi della “Galleria Comunale”, di fronte alla quale c’è la “Galleria” privata dove il maestro ha esposto le proprie opere, di cui alcune impreziosiscono cospicue collezioni private.

Costantemente, inflessibilmente figurativo, in un periodo in cui essere d’avanguardia era inevitabile, Ferroni ha sempre voluto agire sia in campo artistico sia nella propria vita in modo indipendente. Livornese di nascita, era un uomo piuttosto riservato, ma gli bastava dipingere, disegnare, incidere per far emergere tutta la sua peculiarità. Maledetti toscani ha scritto Curzio Malaparte, anche se Ferroni si sarebbe meglio definito L’Arcitaliano – altra opera poetica del suo conterraneo – e dai suoi lavori scaturivano più poesie che massime toscane, liriche pure composte con passione autentica. L’artefice stava dalla parte dei puri e dei più schietti: nel disorganico avvicendarsi dei movimenti che mutarono la figurazione italiana nei primi anni del dopoguerra, molti artisti si concentrarono sulle trasformazioni sociali e sulla graduale erosione degli ideali. Cercavano risposte, desideravano soluzioni che non si occultassero dietro il velo miserabile di ideologie per nulla attuabili. La presa di coscienza della crisi in atto e la consapevolezza di un “centro” fatalmente perduto danno vita a un’arte d’aperta denuncia. Gianfranco Ferroni è tra le voci più vere di questa protesta dai personaggi dolenti, protagonisti del suo lavoro fino ai primi anni Settanta: dai volti ossuti della Sicilia e da quelli sfigurati dal pianto delle vedove di Marcinelle trae gli spunti per una nuova indagine sulla “condizione umana”, che prendeva le mosse dalla sua “condizione d’artista”.

Ancora adolescente, Ferroni è segnato dall’esperienza della guerra. Nel 1944 si trasferisce a Milano e si avvicina al mondo artistico di Brera: anni di trepidazione e irrequietudine, alla ricerca di un proprio stile. Le sue prime opere di rilievo derivano da una direzione espressionista che, attorno alla metà degli anni Cinquanta, sfocerà in quel “Realismo esistenziale” in cui Banchieri, Ceretti, Cremonini, Guerreschi, Romagnoni, Sughi, Vaglieri, Vespignani e Bodini incentrarono brutalmente il tema della condizione umana, al di fuori delle tipologie trasgressivo/ideologiche di allora. Evidente in Ferroni l’influenza di artisti del calibro di Morandi per la sua intrinseca perfezione nel dipingere gli oggetti d’uso comune, di Bacon per la sua maniera di moltiplicare e deformare i profili del volto, di Giacometti per l’erosione delle figure e di Wols per i suoi grovigli informali delle vedute cittadine.

Dai primi anni Sessanta l’artista si accosta alla cultura “Pop”, e nei suoi lavori è palese un intenso conflitto tra disegno, incisione e pittura, abbinati al proprio impegno sociale e all’osservazione sulla resa dello spazio – distinto in sezioni e campiture cromatiche -, sul quale si dispongono sequenze disarmoniche di una narrazione para-esistenzialista. E’ in questa fase che iniziano a spiccare le sue tematiche più ricorrenti: Madre, Tradate, Rifiuti, Interni, Ambiente sconvolto, Racconto di situazione, Passione, Stanza ritrovata, Ritratto di Norge, Spettri, Autoritratto.

Negli anni Ottanta il suo percorso segue una svolta intimista grazie all’autoritratto, filo rosso che aggroviglia la sua ricerca artistica ed esistenziale. Autoritratto che prenderà le sue spoglie ne L’ombra, in Nello studio, nel Cavalletto, nel suo Lettino nella stanza sfatto, negli strumenti o negli Oggetti di ogni giorno Sul tavolino da lavoro, ne Lo studio vuoto. Nel pulviscolo grigio degli interni filtrato dalla luce, l’indagine accurata su un qualsiasi semplice, squallido particolare rivela la necessità di immergersi oltre l’apparenza nella quotidianità più dimessa, per tentare d’afferrare la ragione ultima dell’esistere. Da sempre Ferroni ha cercato di fermare nel tempo ciò che resta del passato, facendo riflettere su ciò che è stato, senza tuttavia dimenticare che il senso della vita si può cogliere solo nello scorrere inarrestabile ed inafferrabile del tempo, nel generarsi e rigenerarsi dell’io e della realtà stessa, nella compresenza di presente e passato.

Nella seconda metà degli anni Settanta il suo repertorio si rifinisce, volgendo alla suprema trasfigurazione degli ultimi due decenni della carriera allineati alle poetiche di Pascal Vinnardel e di López Garcia, pur nelle proprie indipendenze e nei difficili confronti diretti, che l’artista cerca in Vermer anziché nei contemporanei. D’altronde, con Pavimento e La stanza vuota si chiude un ventennio cruciale. Perciò, benché singolare per un artista del Novecento, gli anni decisivi di Ferroni, determinanti per l’approdo finale, non si dissipano in pochi mesi di riflessione, ma nel continuo, minimale superamento del dato acquisito, provato, corretto ed evoluto, come lo scritto di un diario: talvolta fulmineo e guardingo, a volte abulico per impellenze meditative.

“Interno senza mobili. Luce grigiastra. Alle pareti di destra e di sinistra, verso il fondo, due finestre molto alte da terra, con le tende tirate. In primo piano, a destra, una porta. Vicino alla porta, un quadro […]” E’ l’introduzione del dramma Finale di partita, di Samuel Beckett. Uno scenario che ricorda da vicino molti capolavori di Gianfranco Ferroni, come nella litografia Finestra aperta sul lago, 1980, nella quale spazio e ornamento sono ridotti al minimo. Un po’ lo stesso concetto da lui espresso nel 1994: “Lo spazio che situa, la luce che rivela. Dal coniugarsi di questi due concetti si configura il tempo senza limiti convenzionali. Statico, un microattimo per sempre, sospeso, prima del ‘non tempo definitivo’. Solo in coincidenze straordinarie può avvenire questa specie di miracolo! E ci vuole una disposizione d’animo particolare come di attesa religiosa: luce come ‘rivelazione’, spazio come ‘logos’ concettuale.” La stessa attesa di Finale di partita.

Da segnalare che in questo percorso “ferroniano” s’inserisce anche la “Sala Manzù” della “Provincia di Bergamo”, in Città Bassa, dove fino al 1° luglio rimarrà esposto il dipinto Le donne di Marcinelle realizzato nel 1956-57 che ricorda il dramma della miniera belga (1956), emblema dell’immolazione dei nostri emigranti.

“Gianfranco Ferroni”
Palazzo della Ragione, Piazza Vecchia
Bergamo – Città Alta
Dal 31 maggio al 19 agosto 2007
Orari: da martedì a venerdì dalle ore 13.00 alle ore 19.00
Giovedì dalle ore 13.00 alle ore 20.00
Sabato e domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Ingresso: intero 6,00 €, Ridotto: 4,00 €
Catalogo “Lubrina Editore”, Bergamo