Gli esperimenti acustici di Marc Ribot

L’ex Lounge Lizards conquista l’Auditorium Pollini di Padova
Il grande chitarrista americano si è esibito mercoledì primo marzo all’Auditorium Pollini, regalando al numeroso pubblico patavino una performance delicata e di grande suggestione. Ad accompagnarlo prima e dopo l’esibizione, il trio jazz tutto italiano Zorzi-Gallo-De Rossi.

In quanto ex membro degli storici Lounge Lizards, Marc Ribot rappresenta una delle figure chitarristiche più imprevedibili e sperimentali della scena dell’avanguardia newyorkese degli anni Settanta-Ottanta. I più forse lo conoscono per essere stato il chitarrista elettrico di quell’album-capolavoro che fu Rain Dog di Tom Waits (1985) e per aver firmato le straordinarie parti di chitarra in due album fondamentali del nostro Vinicio Capossela, Il ballo di S. Vito e l’ultimo Ovunque proteggi (senza dimenticare le altre collaborazioni in ambito rock-pop con Elvis Costello, Marianne Faithfull, Caetano Veloso…); ma Ribot è soprattutto un esploratore, un ricercatore insaziabile del suono e del timbro della sei corde, e lo ha dimostrato benissimo in questa sua performance forse un po’ ostica, ma interessante e assolutamente imperdibile per chi studia e suona questo strumento.

A differenza di molti suoi colleghi, Ribot parte da un principio tradizionale e acustico, trasformandolo gradualmente in qualcosa di completamente diverso. Si presenta sul palco con una dobro senza pick-up, amplificata da un unico microfono esterno. Quando inizia a pizzicare le corde (con o senza plettro) si riconoscono subito le derivazioni blues e country dei suoi pezzi, due tradizioni da cui il chitarrista ha attinto fin dai lontani esordi, quando lavorava come musicista di studio con nomi del calibro di Wilson Pickett, Rufus Thomas e Solomon Burke. Ben presto il discorso si focalizza però su altri aspetti: la tecnica e l’elaborazione compositiva portano al brano sonorità insolite e quasi indefinite, in quanto l’effetto non è ottenuto attraverso apparecchiature elettroniche o pedali, ma solo ed esclusivamente con il tocco sapiente delle mani (senza particolare sfoggio di velocità e virtuosismo), a volte perfettamente pulito, altre aggrovigliato nella ricerca di assonanze e armonizzazioni ‘impossibili’. Il set diventa una specie di lezione-seminario (Ribot stesso dice che “alcuni di questi pezzi sono esercizi che ho scritto per i miei studenti”), e l’entusiasmo dei chitarristi presenti in sala esplode spesso nel corso della serata in esclamazioni di incitamento e approvazione. Il set si conclude con una piccola ninna-nanna cantata dallo stesso Ribot, forse con un’intenzione lievemente ironica.

Dopo l’esibizione acustica e solista, il gran finale è dedicato alla chitarra elettrica e alla collaborazione (e amicizia) con il trio di Roberto Zorzi (chitarra), Danilo Gallo (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria) che ritorna sul palco, insieme a Ribot, per un ultimo lunghissimo pezzo da cardiopalma: le dinamiche salgono lentamente da un pianissimo a un fortissimo, per stabilizzarsi tra un forte e un fortissimo in cui Zorzi e Ribot si scambiano i riff e gli effetti, mentre la sezione ritmica gioca con ritmi composti, non rimanendo mai sullo stesso pattern per più di otto battute. Esagerato e inebriante.