“Heart of Fire” di Luigi Falorni

Cuore di fuoco

Concorso
La piccola Awet si trova incolpevolmente sballottata in quella che agli occhi occidentali è solo una ennesima, inspiegabile diatriba africana per un pezzo di arido deserto, l’Eritrea, e nel mezzo della lotta per la sopravvivenza e l’indipendenza nazionale ha luogo la difficile maturazione accelerata di una bimba che non capisce perché la sua famiglia la offra ad una delle fazioni in lotta per fare di lei una “combattente per la libertà”.

Il fiorentino Luigi Falorni (classe 1971, studi cinematografici alla scuola di Monaco) aveva rappresentato un caso cinematografico internazionale con il suo precedente lavoro, il documentario “fiabesco” su La storia del cammello che piange, che aveva anche concorso agli Oscar ed aveva positivamente impressionato per la capacità di tirar fuori una storia interessante quasi dal nulla, nonché di accattivarsi l’attenzione dello spettatore con un tema quanto meno originale e forse stravagante. Ma se la vicenda del piccolo animale rifiutato dalla madre si manteneva, nonostante il titolo lacrimevole, sulla giusta linea d’equilibrio fra lirismo e sentimento, fra osservazione etnologica ed etologica, con questo suo esordio al lungometraggio di finzione Falorni non convince affatto pienamente.

Il suo è un esame passato forse con dei crediti formativi da recuperare, bisognerà certamente dargli un’altra possibilità perché trovi un migliore equilibrio, ma in questo Heart of Fire la parte più caduca è prevedibilmente legata al rischio più delicato che corrono tali storie infantili, quell’effetto sentimentale un po’ imbarazzante provocato dalle vicende tristi di bambini sfortunati che colpiscono prima lo stomaco e forse poi la mente. Non che Falorni provi spudoratamente la carta del ricatto emotivo, questo no: il suo è un tentativo combattivo, ma troppo dichiarativo e diretto, di denunciare una situazione storica dimenticata e di presentare una specifica parabola di speranza. Sembra però che il regista sia rimasto bloccato a metà strada fra la narrazione assertiva del documentario e l’arricchimento drammaturgico necessario in un film d’invenzione, di modo che i suoi personaggi figurano un po’ troppo tipici e semplificati e i passaggi narrativi a tratti schematici.

Il centro emotivo ed il termine di paragone di questa storia di guerra ed infanzia negata è la protagonista Awet, una bambina eritrea ospitata in un orfanotrofio cattolico, dove ha modo di imparare una interessante interpretazione della parabola evangelica dell’“altra guancia”: porgere al proprio nemico la sinistra non è affermazione di umiltà francescana, bensì un segno di dignità ed affermazione personale, in quanto ai tempi antichi un man rovescio sulla guancia destra era il modo umiliante di colpire gli schiavi ed i sottoposti, al quale gli stessi avrebbero dunque dovuto reagire esigendo di essere battuti con modalità paritarie; di qui la necessità di una risposta non violenta (è l’assunto ineludibile del film), ma orgogliosa. Lasciando agli esegeti biblici il vaglio di tale spiegazione di una delle affermazioni più note di Gesù, diciamo invece che il film offre invece, se non la guancia, almeno il fianco ad una generica critica di merito: perché scegliere una impressionante e commovente storia di bambini per dimostrare il tipico scempio africano delle terre eritree senza provare un minimo a delineare e spiegare le colpe che gli europei e gli occidentali nella situazione attuale del corno d’Africa? L’impressione pericolosa (certamente non cercata dal buon ed onesto Falorni) è quella di vedersi catapultati in una delle innumerevoli ed inspiegabili faide locali fra tribù africane a noi inevitabilmente lontane e forse indifferenti, come se le due fazioni eritree in lotta per la guida del movimento antietiope fossero una naturale conseguenza della brama di potere e della cattiveria ed arretratezza delle popolazioni subsahariane e non il portato di una lunga e dolorosa storia politica internazionale di colonialismo.

Certo, il regista può giustamente affermare di non aver voluto filmare un pamphlet politico, ma pur tuttavia l’impressione di labilità dei suoi assunti rimane sgradevole e permanente, ad inficiare la fruizione della pellicola. Ad esempio: il padre degenere che consegna la figlia tornata dall’orfanotrofio mascherando la propria insufficienza paterna dietro l’amore alla causa nazionale, le giovani e belle amazzoni eritree che comandano i drappelli di combattenti senza il minimo sentire materno, la violenza quasi primitiva delle due fazioni in lotta, tutto contribuisce a disegnare il ritratto di un popolo deviato e corrotto dall’odio, all’interno del quale dovrebbe spiccare l’unica persona cosciente e pacifista, la bambina che (guarda caso) ha avuto un’educazione cristiana dalle suore della missione italiana. Forse il quadro antropologico e spirituale che ne risulta potrebbe essere perfino tacciato di eccessiva schematicità e tendenziosità, come se il messaggio cristiano (validissimo per carità, e indubbio portatore di pace nella specifica interpretazione del film in questione) debba costituire l’unica via d’uscita alla barbarie dei gruppi e gruppuscoli in lotta per una landa di sabbia desolata e riarsa.

Per ritornare al film ed alla sua collocazione, va detto che esso si offre benissimo a proiezioni didattiche e scolastiche, in quanto la linearità della vicenda e certi agganci intelligenti di sceneggiatura supportano la comprensibilità e l’utilizzabilità nelle situazioni del cineforum impegnato (o forse, e non è affatto un’offesa, del cineforum per le scolaresche): il tema delle guance schiaffeggiate, i fucili di legno contro le munizioni che la bimba si rifiuta di utilizzare, il processo di emulazione bellica che a un certo punto si inverte e diventa avversione contro un modello di vita che costringe ad uccidere dei simili, sono tutti motivi e spunti che testimoniano il buon lavoro svolto in fase di scrittura e di meditazione ideale. Purtroppo però, come si diceva, il risultato filmico è al di sotto delle aspettative, e ci fa venire in mente un’altra mezza “sola africana” degli ultimi anni, il pomposo e gridato film di Mihaileanu del 2005, amato alla follia per il suo Train de vie, ma poi deludentissimo appunto con il successivo Vai e vivrai.
Non sembra dunque che ad una ottima intenzione e a fini sicuramente nobili (ma perché, diciamo provocatoriamente, non costruire dei pozzi invece di fare film sui pozzi che mancano?…) corrisponda questa volta una esecuzione altrettanto buona dal punto di vista della riuscita cinematografica. In una frase, ancora una volta priva di qualsiasi intento denigratorio: un film con ragazzi, ideale forse per i ragazzi.

MASSIMO TRIA

Regia di Luigi Falorni
Genere Drammatico
Produzione Germania, Austria, 2007
Durata 92 minuti circa.