L’Heineken Jammin’ Festival si presenta a Venezia nel più irriverente dei modi, con l’ormai tradizionale giornata dedicata all’heavy metal: Iron Maiden e Slayer arrivano in laguna con la grinta che solo gli epigoni sanno trasmettere, per concludere la festa del genere più estremo del rock.
Il 14 giugno 2007 sembra quasi una riedizione di una giornata di due anni fa del Gods of Metal, in cui il trash e il classic metal di Slayer e Iron maiden ugualmente si susseguivano a mostrare il meglio dei rispettivi “filoni”. Sebbene ai profani l’heavy metal appaia una monolitica realtà tinta di colore nero, esso nasconde infatti realtà di genere molto diverse: così, passeggiando tra il popolo Heineken, si scoprono giovani presenti per un artista disprezzarne un altro, e via così. Certamente, tra i cosiddetti “metallari” esiste un senso di fratellanza innato, che rende gli eventi a cui partecipano sentiti e partecipati aldilà dei numeri e delle esibizioni. Il programma di questo giovedì è tuttavia tale da soddisfare palati molto diversi: oltre ai due gruppi di punta, è presente il power-metal dei Domine, gruppo storico italiano, e l’aggressività, una classica e una più alternativa, degli americani Mastodon e Stone Sour.
Il concerto è aperto da Lauren Harris, figlia dello Steve che più tardi esalterà la folla al basso dei suoi Iron Maiden. L’hard rock che propone non lascia particolarmente impressionati, scolpito da un’ottima band ma privo di canzoni davvero forti. In generale, la grinta della bella cantante non è sorretta da uguali doti vocali.
I Mastodon, con il loro trash-metal ora veloce ora cadenzato sono un’altra cosa: stanno riscuotendo successo in tutto il mondo e lo si nota dalla reazione dei presenti, con intere file a fare headbanging e agitarsi sui ruggiti (alla voce si alternano il bassista e uno dei due chitarristi) degli americani.
Nulla a che vedere con le melodie epiche dei mitici (è il caso di dirlo) Domine, capitanati dal chitarrista-compositore Enrico Paoli e dallo straordinario frontman Morby. I nostri partono con Thunderstorm per una cavalcata di mezz’ora tra brani dal nuovo album (degna di menzione The messenger) e vecchi classici. Sono questi ad esaltare maggiormente il pubblico, che canta lo storico coro di Dragonlord a squarciagola. I Domine rappresentano bene la band che, ignorata dai più nell’ambito della musica heavy più “di massa” può contare su un fedele manipolo di fan affezionati, conscio e orgoglioso per la loro importanza storica nel panorama metal nazionale.
Gli Stone Sour, al contrario, sull’onda della celebrità del cantante (Corey Taylor degli Slipknot) e delle attuali tendenze di ascolto, hanno goduto di notorietà immediata sul palcoscenico internazionale. Sul palco dell’Heineken propongono 40 minuti aggressivi, durante i quali scaricano tutto l’alternative dei loro due album addosso al pubblico ormai molto numeroso, che apprezza.
Quando è la volta degli Slayer, il clima è ormai torrido: da South of heaven a Mandatory Suicide, il loro set è composto esclusivamente da pezzi tirati come da tradizione, compresi quelli tratti dall’ultimo Christ Illusion. È difficile dire chi sia il mattatore di un quartetto i cui componenti sono tutti noti e amati dai fan: dal punto di vista esecutivo, è il batterista Dave Lombardo ad emergere, mentre la chitarra di Jeff Hanneman risulta piuttosto soffocata da quella di Kerry King, tanto irriverente quanto adorato dal suo pubblico. L’apice dell’esibizione si ha nelle conclusive Raining blood e Angel of death, classici indimenticati tratti dal disco d’oro in America Reign in Blood. Per alcuni è uno spettacolo per le orecchie e la vista, per altri un tormento: probabilmente i californiani, da sempre dibattuti e controversi, non potrebbero desiderare di meglio.
Alle dieci è finalmente il momento degli headliner Iron Maiden, e il numero di magliette recanti il logo del gruppo è probabilmente superiore a quello dei presenti all’esibizione di Lauren Harris. Ora è il turno del padre, capitano di lungo corso di una band sulla cresta dell’onda da più di venticinque anni. L’apertura è affidata a Different World, tratta dall’ultimo A matter of life and death. Con buona pace del cantante Bruce Dickinson, che ne tesse continuamente le lodi, e nonostante la resa live lo migliori, l’album non spicca per creatività e incisività: così i primi 20 minuti, che pescano interamente dalla nuova uscita, si traducono parzialmente in un’attesa dei grandi classici. Wratchild e The trooper finalmente soddisfano tutti, e il pubblico impazzisce letteralmente. Cantata a squarciagola Children of the damned, ci si ricompone con due dei nuovi brani, per esplodere nuovamente: è il momento di The number of the beast, tratta dall’omonimo album uscito venticinque anni fa. Bruce Dickinson canta e corre instancabile, segnalandosi per la consueta prestazione ad altissimi livelli. Di lì in poi, solo grandi classici: Fear of the dark, Run to the hills, Iron Maiden, con un enorme carro armato che appare sul palco. La band è in grande forma: i tre chitarristi Dave Murray, Adrian Smith e Janick Gers inanellano assoli su assoli, aiutati dalla “solita” sezione ritmica di Harris e Mc Brain, quest’ultimo spesso acclamato: “Nicko, Nicko” è il coro che accompagna l’uscita di scena della band, dopo i bis affidati a 2 minutes to midnight e Hallowed be thy name. Un’esibizione tirata e coinvolgente, che conclude degnamente una giornata di festa destinata ad un genere, l’heavy metal, spesso ingiustamente bistrattato.