Concorso
In una iurta delle steppe mongole una famigliola deve affrontare un grave problema: la figlioletta sembra avere dei problemi all’udito, bisogna andare in ospedale nella capitale Ulan Bator, ma il padre non ha alcuna voglia di abbandonare i suoi abituali ritmi rurali. Madre e figlia partono da sole. Poco tempo dopo una donna e il suo figlioletto, in fuga dalla dittatura nord-coreana, chiedono ospitalità al pastore mongolo. Si formerà così una inusuale situazione di convivenza, fra persone che non conoscono le lingue dell’altro, ma che vengono a formare un nucleo familiare del tutto funzionale.
Zhang Lu è un regista cinese nato nel 1962. Il suo terzo lungometraggio, questo Hyazgar (titolo internazionale Desert Dream) è una coproduzione franco-coreana ambientata nelle steppe della Mongolia: in breve, una sorta di triangolazione fra tre diversi mondi dell’Estremo Oriente che ad un pubblico europeo può rimanere piuttosto indigesta proprio in virtù delle prevedibili difficoltà di comprensione estetico-culturale. Non per abusare del luoghi comuni sull’aspetto meditativo delle culture tradizionali asiatiche, sui controversi rapporti fra città e campagna, o sulla poca spettacolarità di centoventitré minuti di pellicola che si snoda lentamente attorno ad una iurta mongola, ma corrisponde al vero che il nostro Zhang Lu mette a dura prova la pazienza cinematografica anche dei più scafati cinefili: i due personaggi principali parlano due lingue diverse (quelle poche volte che si esprimono a parole), le tradizioni agrarie delle steppe sono piuttosto ignote a chi scrive, e in fondo l’intero film si basa su una presunzione di probabilità piuttosto remota, probabilmente dovuta a ragioni di coproduzione internazionale, ovvero che una donna in fuga dalla Corea del Nord riesca ad attraversare in un lasso di tempo non troppo lungo tutta la Cina a piedi, per poter così giungere, quasi come in una favola, alle porte dell’umile abitazione del nostro gentile pastore…
Questo valga per quel che concerne la verosimiglianza della storia; che poi la pellicola nel complesso esprima dei valori artistici ed umani non è però affatto escluso. Se si dimentica per un attimo la stravaganza della situazione di partenza (o forse meglio, se ci si fa completamente assorbire da essa), ne esce in fondo un film straniato ma coerente sull’ostinazione dell’essere umano e sulle sue capacità di adeguamento: il pastore Hangai è ostinatamente legato alla sua terra ed è l’unico che si incaponisce a piantare alberelli nelle distese desertiche che lo circondano; la madre coreana, Choi Soon-hee, per difendere suo figlio si imbarca in una spedizione che ha dell’incredibile e riesce ad adeguarsi alla situazione d’emergenza.
Da un punto di vista antropologico è poi proprio questa capacità di adeguarsi che porta i fuoi frutti migliori: l’elemento estraneo (la coreana) accetta la particolare declinazione di “follia” dell’elemento autoctono, e si mette anch’essa a disseminare il deserto di alberelli.
Da un punto di vista etnografico poi la innegabile difficoltà a sintonizzarsi con la diegesi (abbastanza debole e frammentaria) è ripagata da uno sguardo semi-documentaristico su usi e costumi della steppa mongola, immortalati con un approccio fra l’enigmatico ed il poetico (non siamo certo su toni divulgativi da National Geographic). Insomma, il tipico esempio di cinematografia “orientale” fatta di vuoti narrativi e pieni semantici che può piacere al cinefilo paziente.
TITOLO ORIGINALE
Hyazgar
TITOLO INTERNAZIONALE
desert Dream
NAZIONE
Repubblica di Corea / Francia
GENERE
Drammatico