I DIECI COMANDAMENTI/2

Ricordati di santificare le feste. Secondo appuntamento del ciclo “Dieci Comandamenti”.

Perché si sente la necessità di fare festa? Da cosa nasce questo bisogno? E soprattutto oggi ne rispettiamo i presupposti?

Nella cultura occidentale la maggior parte delle festività hanno matrice religiosa e indicano quel Tempo del Giorno Felice in cui ogni credente si ritrova per purificarsi, per ritornare all’origine non contaminata dal peccato. Ed è per ciò che questi giorni sono sacri, separati dal tempo profano in cui tutti noi ci affacendiamo nelle molte attività della nostra vita.
Questa ritualità oggi è scomparsa e la festa è divenuta momento di vacanza, quel tempo libero inteso come occasione di riposo e possibilità di dedicarsi a ciò che più ci piace fare. Luogo di socialità occupato dalla famiglia, dai propri amici e dai propri hobbies.
La festa è quel giorno della settimana, o del mese che “finalmente arriva”, nel quale concetriamo tutti i nostri desideri o che semplicemnte decidiamo di impiegare per “perdere un po’ di tempo” e riposarsi dalle fatiche quotidiane.
La nostra società ormai pienamente secolarizzata ha perso quel significato originario della festa religiosa, come spazio sacro, separatato in cui immergersi per ricordare quell’esperienza di purezza ormai perduta.
Vincenzo Vitiello, che è intervenuto assieme ad Emanuele Severino sul tema della serata, sostiene che tutto questo sia espressione di un nichilismo religioso inevitabile.
Per il filosofo la possibilità di superare questa deriva assume dei tratti quasi mistici: noi abbiamo esperienza di Dio solo come abbandono e il senso che assume il presente è nella Sua assenza. Come negare l’esperienza del Male? E come possono convivere il male e Dio?

In quest’ottica la festa assume i tratti di un evento quotidiano, perché ogni giorno sperimentiamo quel male di vivere che è espressione della Sua mancanza.
Intendere la Croce come momento dopo il quale segue la Pasqua riduce la religione a strumento di cui ci si serve per realizzare felicità: il sacro non è luogo di separazione ma di unione più profonda, luogo di contraddizione dove male e bene coabitano. Ed è solo qui che ha sede il Vero della vita. Dolore e gioia si implicano l’un l’altro in un rapporto indissolubile: il Regno di Dio è questo mondo perché Lui l’ha creato per noi e il mondo è perciò quell’unità contraddittoria di bene e male perché solo in essa possiamo sperimentare la presenza divina.

E che tempo rimane quindi alla festa cristiana dopo il tramonto del cristianesimo?
Secondo Severino questa grande religione appartiene ormai a quel grande passato che non ha più presente, la filosofia non è più capace di pensare l’esistenza di un Dio immutabile perché il nichilismo non è solo un momento del processo strorico ma appare come il vero Destino dell’Occidente.
Nel suo lungo intervento, Severino, coglie l’occasione di ribadire quelli che sono i fondamenti del suo pensiero e al tema specifico della serata viene lasciato uno spazio marginale.

Cosa significato sottendono i Dieci Comandamenti?
Essi esprimono la proibizione di Dio all’uomo di annientare l’ordine stabilito: se l’uomo sceglie di uccidere non fa altro che infrangere quel diritto all’esistenza che appartiene all’ordinamento divino.
Ma nel momento in cui Dio crea l’uomo dà l’essere a chi di per sé non ce l’ha: l’uomo è ridotto a nulla perché ha valore, non in sé, ma solo in rapporto al suo Colui che gli dona la vita.
Se da una parte l’uomo diviene colpevole nell’atto in cui infrange l’ordinamento divino, Dio lo è in un modo più radicale perché compie l’omicidio originario riducendo l’uomo a niente. La dignità umana è tale solo in rapporto al Creatore.
E nella festa l’uomo prega Dio per chiedergli di essere salvato ma così facendo ne rivela la Sua debolezza intrinseca: Dio chiede a me che sia fatta la Sua volontà, così facendo sono io che permetto a Lui di esistere.
Dopo il tramonto del cristianesimo a Dio si è sostituita la Tecnica come quel fine supremo a cui tutti gli sforzi sono indirizzati. Ma ciò che essa può dare è solo una felicità ipotetica perché, a differenza di Dio, non può garantire certezze ma solo possibilità.

All’interno di questa visione l’uomo si è sempre considerato suddito di un re, qualsiasi esso sia, cui fare appello affinchè desse un senso alla sua vita. Ma non c’è nulla di più sbagliato, conclude Severino, perché l’uomo deve imparare a riconoscersi quale Re della propria esistenza, perché egli non è nient’altro che questo.

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