“IL PADRE DEI MIEI FIGLI” di Mia Hansen-Løve

Ritratto di famiglia

Un produttore cinematografico alle prese con registi capricciosi, film difficili da portare a termine e guai finanziari. Questi ultimi finiranno per opprimerlo spingendolo al suicidio. Nella seconda parte del film vediamo la sua bella famiglia – moglie e tre figlie – alle prese con l’elaborazione del lutto e con un tentativo in extremis di salvare la società.

Secondo lungometraggio di Mia Hansen-Løve, Il padre dei miei figli è un film ispirato a una figura reale, Humbert Balsan, che produsse film di Youssef Chaihine, Elia Suleiman, Claire Denis, James Ivory e che, schiacciato dal peso dei debiti, finì per togliersi la vita il 10 febbraio 2005 (quando, tra i progetti a cui stava lavorando, c’era anche il film d’esordio della Hansen-Løve). Premiato a Cannes (nella sezione Un certain regard) è un film che potrebbe lasciare diversi spettatori insoddisfatti, come se gli mancasse qualcosa. Raccontando un “pezzo di vita”, adotta infatti un modo di raccontare che rifugge dalla drammatizzazione: non carica gli spunti conflittuali (che pure ci sarebbero – i creditori, i registi, ecc.), non cerca scene madri, dialoghi urlati e sopra le righe. Il padre dei miei figli non è insomma un film di Patrice Chéreau o di Christophe Honoré. E così alcuni spettatori scambieranno questi toni smorzati per banalità, per incapacità di dare sostanza alla storia e creare attenzione.

E poi, a differenza di un Muccino o di un Özpetek, la Hansen-Løve evita di mettere una voce fuori campo o una vecchia zia che da quel pezzo di vita che viene raccontato tragga una morale (e la imponga allo spettatore), con frasi “memorabili” (“la vita è così”, “la morte è cosà”, “l’amore”, “il senso della vita”, “la felicità”, bla bla bla). E così alcuni spettatori penseranno che questo film non riesca a dirci nulla, non riesca cioè ad elevarsi sopra il caso singolo portato sullo schermo.

E, infine, raccontandolo questo “pezzo di vita” lo fa con uno stile estremamente sobrio e controllato, privo cioè di quegli scarti, di quelle volute “sgrammaticature” che negli epigoni della nouvelle vague sono il modo di lasciare aperta la porta al caso e alla “vita”. E questo sarà ritenuto da alcuni spettatori grigiore di stile.

Dicendo quello che NON troveranno, abbiamo dunque avvertito gli spettatori che potranno rimanere delusi. Detto questo, ci sentiamo però di consigliarlo per diverse ragioni. Perché agli appassionati di cinema, non potrà sfuggire la descrizione accurata, lontana da facili cliché, del mondo del cinema (e l’amore disincantato con cui sono ritratti i suoi protagonisti). Perché la costruzione narrativa – oltre allo sviluppo originale consistente nel far morire a metà dell’opera quello che sino ad allora appariva il protagonista della vicenda – riesce sapientemente a far coesistere una pluralità di punti di vista. Ma, soprattutto, perché suona “autentico”, “vero”. Si noti a questo proposito la qualità ammirevole della recitazione: è questa che rende viva, palpitante, e quindi interessante, una “tranche de vie”. Tra parentesi, è da consigliare, se possibile, di vederlo in originale, perché il doppiaggio non potrà che rovinare la splendida naturalezza della recitazione, che è parte integrante delle bellezza di questo film.

D’altra parte, a quegli spettatori che, non trovandovi le frasi “esplicative” di Muccino od Özpetek pensassero che il film, come si diceva, si esaurisca nella rappresentazione di un caso singolare, consigliamo di seguire i motivi, per così dire universali, del destino, del caso, della libertà di scelta (della possibilità di dire “sì o no”, di cui il suicidio è, per certi versi, l’estrema affermazione). Motivi che l’autrice non impone alla storia, e allo spettatore, da un punto di vista privilegiato, ma riesce a inserire fluidamente e sottilmente nelle pieghe della vicenda (ad esempio, attraverso le valenze simboliche degli oggetti – la scala nel luogo dei templari, le candele, i mosaici di Ravenna, ecc.) richiedendo allo spettatore maggiore collaborazione interpretativa.

Se prima avevamo detto a cosa Il padre dei miei figli NON assomiglia, possiamo ora concludere dicendo che le tonalità adottate e la costruzione dei personaggi può, per più versi, riportare alla memoria un film come La stanza del figlio – tra l’altro, ancora il ritratto di una famiglia alle prese con l’elaborazione del lutto.

Un’ultima notazione. Ci siamo ripetutamente chiesti perché i distributori italiani abbiano tradotto il titolo originale Le père de mes enfants con Il padre dei miei figli (quando si tratta in realtà di tre figlie) ma, al momento, non riusciamo a darci risposta.

Titolo originale: Le père de mes enfants
Nazione: Francia
Anno: 2008
Genere: Drammatico
Durata: 110’
Regia: Mia Hansen-Løve
Cast: Chiara caselli, Louis-Do de Lencqueasing, Alice de Lencqueasing, Alice Gautier, Manelle Driss, Eric Elmosnino, Sandrine Dumas, Dominique Frot, Djamshed Usmonov, Igor Hansen-Løve, Magne Håvard Brekke; Eric Plouvier, Mickaël Abiteboul, Philippe Paimblanc, André Marcon
Produzione: Les films Pelléas – Philippe Martin, David Thion, in coproduzione con 27 Films Production – Oliver Damian, Arte France Cinema
Distribuzione: Teodora Film
Data di uscita: 11 giugno 2010 (cinema)
Sito ufficiale: http://www.filmsdulosange.fr/fr/fr_peredemesenfants.html
Sito italiano: http://www.teodorafilm.com/film/leperdemesinfants/