“Il circo” di C. Chaplin

Venghino, signori, venghino: inizia lo spettacolo della natura umana!

Terza ed ultima serata per MutOmaggio che ha offerto a Macerata, nel monocroma degli albori del cinema, i grandi film del passato al solito cinefilo dall’occhio esperto e a qualche incuriosito novizio. Protagonista del gran finale, il buffo vagabondo dal cappello a cilindro e il bastone sempre un po’storto: ecco a voi il genio di Chaplin, che ci invita a tornare bambini.

Ottantacinque minuti di malinconica poesia: questo è Il circo girato da Chaplin nel 1928 subito dopo La febbre dell’oro, quando già il sonoro cominciava ad incalzare registi e produttori.
Chaplin, baffetti e bretelle, trucco e bombetta, veste questa volta i panni di un piccolo inserviente assunto in un circo e destinato, già in partenza, a combinarne di tutti i colori: con la sua goffaggine involontaria ed irresistibile, riuscirà però a strappare più risate di un consumato comico, con grande gioia del suo padrone (che, manco a dirlo, lo strapazza continuamente) e molto meno della propria, costretto a numeri improbabili e pericolosi. Ma la sorte non è mai dalla parte dei piccoli inservienti, specie se questi finiscono per innamorarsi di belle e gentili trapeziste come Myrna, figlia del superiore, la quale, a sua volta, riuscirà a fargli ottenere un aumento di stipendio, ma non gli farà mai dono del regalo più importante, il suo cuore. Così Charlot, tra vani tentativi di conquistare la giovane donna inventandosi trapezista, e quelli, altrettanto vani, di far felici pubblico e padrone con nuove ed esilaranti trovate (ma, si sa, l’amore è nemico dell’ironia), finisce per essere licenziato, compiendo l’ultimo, garbato, eroico gesto in un finale dolceamaro.

Il film, costellato di gag “bestiali” degne della più grande tradizione comica di Chaplin, potrebbe far pensare ad un’opera buffa a tutti gli effetti; in realtà, Il circo è un’opera strana: strana perché frammentata, un po’ pessimista e un po’ disillusa, dove è più presente l’impronta autobiografica del regista. La metafora, probabilmente non compresa nella sua interezza al momento dell’uscita della pellicola, è in realtà chiara: Chaplin porta sullo schermo il suo doppio, un artista alle prese con i problemi della propria creatività che, invece di poter essere libera di esprimersi, è costretta a piegarsi ai dettami del padrone, in questo caso del circo, così come ai voleri del pubblico e, scendendo ad un piano ancor più realistico, a quelli dell’industria cinematografica.
Una creatività mozzata che, per poter sopravvivere, è costretta a scendere a patti con il più forte, il più potente, capace di trovare nel sentimento un modo per elevarsi (così come per cadere giù, un attimo dopo) ma che, volente o nolente, alla fine lascerà che quella società impazzita e consumatrice di divertimento proceda da sola. Il circo è anche una delle prime opere di Chaplin a trovarsi faccia a faccia con la novità del sonoro: la soluzione scelta, per questo film come per il precedente, sarà quella di sempre, ribadendo così l’appartenenza dell’intera opera chapliniana all’universo del muto e della pantomima.