La sala è completamente buia e una luce soffusa si accende marcando pian piano i lineamenti dell’attore in piedi davanti ad un leggio dal quale si appresta a leggere il primo pezzo. Così ha inizio lo spettacolo di Ascanio Clestini “Il razzismo è una brutta storia”, “forse uno degli ultimi spettacoli che andranno in scena al teatro Duse di Bologna” scandisce chiaramente la voce del rappresentante dei lavoratori del teatro: “la soppressione dell’ente teatrale potrebbe essere fatale per questa che è una delle sedi culturale storiche della città”.
Sono 10 i pezzi che compongono il lungo monologo dell’autore romano: favole, riflessioni, ritratti sconfortanti di uomini d’oggi; li mette insieme come fossero brani musicali, uno dietro l’altro, in mezzo, brevi pause nelle quali le urla belluine di alcuni parlamentari, sindaci, o politici in genere, rimbombano tra la platea attonita. Urla e sproloqui che sembrano confermare che il mondo arido, cinico e violento di Celestini non vive solo nelle sue favole surreali, nelle sue metafore più crude.
Anche la presenza costante sul palco della chitarra acustica che accompagna le parole del monologo, fa aumentare ancor di più la sensazione di assistere ad un concerto: i brani di Celestini assomigliano a blues o forse di più a rap, per la musicalità delle parole veloci e le formule che si ripetono costanti come ritornelli che caratterizzano i singoli brani.
Il razzismo, pur essendo il tema principale, non è l’unico affrontato. Lo spettacolo spazia, per rappresentare un ritratto della società odierna: l’omofobia, o la generale diffidenza verso il diverso, l’indifferenza per il prossimo, la vita, resa ormai meccanizzata, sono argomenti che bene o male si rtrovano in tutti i brani.
I suoi personaggi non sono in grado di dominare se stessi: sono ostaggio dei loro istinti più bassi, pronti ogni volta a scegliere la strada più semplice e meno virtuosa, i loro atteggiamenti sono privi di ogni etica e umanità. “Rilassati, tutto va bene” ripete Celestini, ironico, in ogni brano, come a dire “Non pensate, smettetela di ascoltare la vostra coscienza”.
Le storie si succedono così una sempre più simile all’altra, i caratteri comuni si fanno individuare presto: il finale è sempre amaro, talvolta disarmante, le figure che popolano le storie sono più o meno sempre le stesse: il “padrone” che esercita il proprio potere senza alcun sentimento, come farebbe una macchina; il libero cittadino che usa l’astuzia unicamente per realizzare i propri interessi, l’extracomunitario, l’omosessuale o comunque l’escluso, il discriminato, vittima innocente della disumanità imperante.
Ciò che colpisce e che forse fa riflettere in relazione al significato che lo spettacolo vuole trasmenttere, è che gli atteggiamenti e i meccanismi della società che Celestini stigmatizza e di cui fa risaltare la completa insensatezza, sono caratteri da cui neppure lo stesso autore riesce del tutto a distaccarsi. Il linguaggio cinico spinto all’estremo che Celestini utilizza apparentemente per riprodurre più schiettamente le anomalie dei nostri tempi, diventa anche lo strumento del quale l’autore abusa per scatenare le risate del pubblico (che in effetti ride, e di gusto!). E così, la meccanizzazione, l’alienazione che denuncia in questa società, sembrano investirlo in pieno: meccanica è la costruzione dei racconti ascoltati, meccanico il suo modo di raccontare e di stimolare (abbondantemente) il riso.
Per questo il brano nel quale se stesso e progressivamente l’intera società sono paragonati a “una cosa, una macchina efficiente in continua funzione” mi è parso il più sincero ed autentico; l’autore, dicendolo, sveste ogni maschera, non indossa i panni di nessun alter ego, come accade negli altri brani, ma comprende e ammette il proprio assoggettamento, la propria incapacità a non essere del tutto estraneo a quell’umanità che con vigore invece intende condannare.
IL RAZZISMO E’ UNA BRUTTA STORIA
Racconti: Ascanio Celestini – Musiche: Matteo D’Agostino – Suono: Andrea Pesce
www.teatroduse.it – www.itcteatro.it
Durata: 2h 20′