“Inju, la bête dans l’ombre” di Barbet Schroeder

La geisha in giallo

Venezia 65 – Concorso
Lo scrittore di romanzi polizieschi Alex Fayard cerca di proteggere una geiko dalla follia di un romanziere di sucesso Giapponese. Esperimento di genere, più vicino ad un Perry Mason di qualità che ad un’opera in concorso.

Lo scrittore di romanzi polizieschi francese Alex Fayard parte alla volta di Kyoto per promuovere in Giappone il suo ultimo romanzo, Les Yeux Noirs. Il libro sta riscuotendo grande successo nel paese del sol levante, ed è quasi al punto di superare le vendite del maestro giapponese del genere, il misterioso Shundei Oe, la cui idenitità e volto sono sempre state celate senza intaccare il sucesso dei suoi libri. Fayard è il più grande esperto europeo di Oe, nonché grande estimatore, e non vorrebbe che la sua ultima fatica adombrasse l’opera del collega nipponico: tanta è però anche la voglia di incontrarlo, nonostante il mistero che lo avvolge. Tamao, un’affascinante geiko conosciuta in una casa da tè, gli rivelerà dei segreti: Oe potrebbe essere il suo ex fidanzato, impazzito di gelosia dopo il rifiuto di una proposta di matrimonio. Inoltre, continue minacce dello scrittore cercano di allontanare Fayard dal Giappone, forse per l’invidia di tanto successo; Fayard decide di indagare, trascinato anche dall’amore per la bella Tamao.

Attaccare Schroeder, uno dei registi e critici che rientrano in quell’ampia cerchia di autori francesi (benché lui sia di origine iraniana) forse meno noti ma che comunque presero parte alla Nouvelle Vague sembrerebbe come infangare la storia del cinema: critico per i Cahiers, aiuto-regista di Godard, produttore di Rohmer. Di per sé, inoltre, il lavoro di Schroeder ben si potrebbe ascrivere alle tipiche passioni di qualsiasi autore della corrente, passioni rimaste praticamente inalterate dopo tanti anni: l’amore per il cinema di genere su tutti (si veda la lunga passione tra Chabrol e il thriller). Schroeder decide per cui di confrontarsi con il poliziesco, arricchendolo di atmosfere interessanti e di una cultura ancora poco conosciuta in occidente – quella delle geiko e delle case da tè – grazie alla trasferta nipponica. Il risultato non è ovviamente fallimentare, perché saper usare la macchina da presa è il minimo richiesto ad un regista con un passato come il suo. Quello che risulta poco chiaro, però, è come un film del genere sia potuto arrivare in concorso: Schroeder non sembra interessato infatti all’operazione degli altri autori ex-Nouvelle Vague, ossia spingere l’esplorazione nel genere approfondendo la parte psicologica, mitica, poetica, superando così la barriera costituita da film che proprio rifugiandosi nella classificazione di genere non erano risuciti ad andare oltre ad una serie di lughi comuni (inteso non in senso completamente negativo, ma come quegli elementi che identificato un determinato genere e si rintracciano in qualsiasi film che vi appartiene). Così facendo, si perde le possibilità offerte dal genere stesso, cioè quelle di costituire una cornice di simboli riconoscibili e cari al pubblico, che però non costituiscono l’essenza del film ma solo la struttura esterna. Cosa differenzierebbe, altrimenti, La donna che visse due volte o Grazie per la cioccolata da una puntata di Perry Mason?

Schroeder sceglie nel genere il suo fine ultimo, non un mero strumento: scelta non attaccabile, ma sinceramente non al passo coi tempi, che ormai da decenni hanno interiorizzato i meccanismi cinematografici non per cancellare i generi ma per sperimentarli e renderli una risorsa preziosa. Per esperimento di genere, poi, si intende la capacità di destrutturare, fondere, analizzare il genere, non tanto che un regista scelga di plasmare una replica di molti altri film che già in precedenza hanno formato i pilastri del genere stesso, con qualche minima variatio. Quella di Schroeder non si può nemmeno definire una pellicola mal riuscita perché il regista non fallisce nel realizzare il suo obiettivo, anzi, lo centra in pieno: ci restituisce un film completamente di genere, ma che nulla di nuovo ha da aggiungere al genere. Ed in una rassegna come quella della Mostra ci si aspetterebbero invece opere che testimonino un’evoluzione del cinema, un cambiamento, che rispecchino le tendenze contemporanee e non che si rifugino in territori già più volte visitati. Non un brutto film, ma una puntata d’autore di Perry Mason o La Signora in Giallo, con tanto di monologo finale dove si rivela l’assassino: e al termine dei titoli di coda, ad una mostra del cinema, ci si aspetterebbe qualcosa di più dei titoli del Tg1 che da anni seguono la signora Fletcher.

Per dovere di cronaca, la pelicola è tratta da un romanzo di Edogawa Rampo, romanziere cult in Giappone morto nel 1965. Per ora, il film vince la gara della scena di sesso più spinta, che da sempre intrattiene il pubblico del Lido che dopo molte dissertazioni intellettuali ha bisogno di qualche occasione di svago; siamo sicuri, però, che anche quest’anno la selezione saprà andare ben più in là di qualche parentesi sadomaso.

Titolo originale: Inju, la bête dans l’ombre
Nazione: Francia
Anno: 2008
Genere: Poliziesco
Durata: 105’
Regia: Barbet Schroeder
Cast: Benoit Magimel, Lika Minamoto, Gen Shimakoa, Ryo Ishibashi, Shun Sugata, Tomonobu Fukui, Kazuhiko Nishimura, Reika Kirishima, Kazuki Tsujimoto, Maurice Benichou
Produzione: SBS Film, La Fabrique de Film, France 2 Cinema
Distribuzione: UGC International
Data di uscita: Venezia 2008