Ho ascoltato con interesse le relazioni di Lattuada e di Castello, e mi dispiace di non aver potuto leggerle prima. Meritavano un minimo di meditazione preventiva. Invece eccomi qua, e me ne scuso, a improvvisare.
Nonostante l’adesione di massima a quanto è stato detto in sede teorica da Lattuada, da Castello, e da altri, confesso che mi ha stupito, in tema di rapporti fra cinema e letteratura, l’insistenza da parte di tutti a tacere della letteratura drammatica, cioè del teatro. Si è fatto un gran parlare del romanzo, perfino della poesia lirica. Del teatro, niente. Come mai? E sì che il cinema, a guardar bene, è nato proprio dal teatro, da una costola del teatro naturalistico; allo stesso modo che il romanzo storico ottocentesco, a guardare altrettanto bene, è nato da una costola di quelle estreme forme di reviviscenza del dramma religioso medievale, che furono, nel Settecento, i Masnadieri di Schiller, il Goetz von Berlichingen del giovane Goethe. Capisco: il «mezzo» più proprio del teatro è la parola, mentre il «mezzo» peculiare del cinema è l’immagine. Tuttavia, perché non riconoscere che il cinema, proprio come il teatro religioso medievale, consiste di una rappresentazione per luoghi deputati, svolgentesi su un palcoscenico vasto come il mondo? Quando gli uomini di cinema si volgono al romanzo, pensano a un prodotto eminentemente narrativo, contesto di «fatti»: sul tipo dei Promessi sposi o di Guerra e Pace. Scartano istintivamente romanzi come Adolphe di Benjamin Constant, come Dominique di Fromentin, come L’immoraliste di Gide, i quali da quelle analisi che sono del cuore e dei sentimenti, si riallacciano a una tradizione teatrale (classica, o classicistica che sia), che col vasto palcoscenico del mondo non ha niente da spartire. Ma, e con ciò? Vero è, non pertanto, che la vocazione «epica» del cinema deriva, anche essa, dalla letteratura. Basterà rendersi conto da quale, ecco tutto. E questo, non fosse per altro, perché gli uomini di cinema meglio si convincano (in ciò, sono d’accordissimo con Sacchi) a dimettere una volta per tutte la loro strana e diffusa preoccupazione circa la «purezza», non mai abbastanza garantita, della loro arte. Senza fare ricorso al grande precedente del melodramma, sarà sufficiente ai puristi dello «specifico filmico» ricordare che l’arte, in genere, è sempre il risultato di una contaminazione fra l’esperienza e l’estro individuale, da una parte, e la cultura, dall’altra.
Per il cinema, personalmente, ho lavorato parecchio, se pure in anni ormai lontani.
Ho collaborato alla stesura di una dozzina di sceneggiature, per un ammontare, credo, di qualche migliaio di pagine. Non ne ricordo nessuna, di questa pagine: e non già perché le abbia scritte senza impegno (spero che mi si vorrà credere), ma per la semplice ragione che non avevano, premeditatamente, il minimo valore autonomo. Sapevo bene, lavorando, di star fornendo un libretto d’opera, sul quale, poi, sarebbe intervenuto il regista, che avrebbe provveduto per conto suo a farne quello che meglio gli sarebbe sembrato. Comunque sia, debbo dire che il lavoro subalterno dello sceneggiatore non è stato senza utilità, per la mia letteratura. Erano gli anni intorno al 1950. Come scrittore, a quell’epoca mi trovavo ancora involto nella presunzione giovanile, di origine forse ermetica dell’ineffabilità. Scrivendo, non mi impegnavo solitamente a «tirar fuori», tutto quello che avevo dentro, convinto come ero che ciò che avevo, o credevo di avere, dentro, non poteva, e quindi non doveva, esser tirato fuori. Scrivere, significava fornire dei lampi, dei barlumi, dei segni fulminei, magari anche imprecisi, traendoli dal ribollente e indifferenziato magma interiore. Orbene, fu proprio il lavoro cinematografico, e soprattutto la vicinanza e lo sprone di un amico carissimo, che era un regista, sì, ma anche uno scrittore (parlo di Mario Soldati), il quale non soffriva affatto, ovviamente, dei complessi di inferiorità o superiorità, nei confronti della letteratura, che affliggono tanti uomini di cinema, fu proprio questo incontro e questa collaborazione a indurmi a uscire da me, a esprimermi completamente sulla pagina.
Scrivendo per il cinema, facendo, cioè, un lavoro affatto diverso da quello dello scrittore, mi ero reso conto, in sostanza, che lo scrittore, per esprimersi, non ha a sua disposizione altri mezzi all’infuori della parola e dei segni di interpunzione. Niente altro.
Proprio in quegli anni, dal ’49 al ’51, scrissi un racconto, La passeggiata prima di cena, che alcuni critici continuano a considerare tra i migliori, nel quale è chiaramente avvertibile l’influenza della tecnica cinematografica.
Il racconto si apre con l’immagine panoramica del corso principale di Ferrara, corso Giovecca, visto nell’ora affollata e patetica del crepuscolo, l’ora che precede il momento della cena. Siamo nel 1888: nell’estate del 1888. Ma ecco che la «macchina» si muove lentamente in avanti, il campo visivo a poco a poco si restringe, isolando e mettendo a fuoco, laggiù, in fondo al Corso, il piccolo particolare di una ragazza che sta avviandosi verso casa. Di più: tutto il racconto è costruito in prospettiva, ad imbuto: come se una macchina da presa stesse mettendo a fuoco, avanzando adagio in carrellata, un oggetto lontano. E accade proprio questo, in effetti: che soltanto alla fine, arrivati all’ultima pagina, l’immagine del protagonista del racconto, l’enigmatico, ambiguo dottor Elia Colcos, trovi la sua vera compiutezza, il suo definitivo recupero, attraverso le ironiche, mitiche, nebbie del passato.
In seguito, più che dalla tecnica cinematografica, direi di esser stato suggestionato dalla tecnica teatrale, di tradizione classicistica: da quella, cioè, devota alla regola delle tre unità – di spazio, di tempo, e di azione – di un Corneille, di un Racine.
Gli occhiali d’oro, un breve romanzo che ho scritto fra il ’56 e il ’57, è costruito, in fondo, appunto come una pièce di Corbeille o di Racine: col suo quinto atto, alla fine, dove viene prodotto il massimo sforzo, dove si cerca di conseguire la famosa, indispensabile «catarsi». E anche Il giardino dei Finzi-Contini, anche Dietro la porta (il mio libro più recente), sono fabbricati così: restringendo, al massimo, spazio, tempo e azione, e dilazionando il maggior sforzo poetico – quel «di più» di ispirazione lirica davanti al quale Voltaire, critico entusiasta del Racine di Berenice, si dichiarava sconfitto e impotente – alle ultime pagine.
Ma, per finire, vorrei, se mi è permesso, esprimere il mio dissenso da Lattuada per quanto attiene al suo invito, rivolto agli scrittori, ad accostarsi al cinema, a lavorare per il cinema. Quel suo invito, così come lui l’ha formulato, rischia di trasformarsi in un abbraccio mortale.
Mi spiego. Fissato il punto che fra cinema e letteratura si leva la barriera discriminante, rappresentata da due «mezzi» fondamentalmente diversi (l’autore cinematografico si esprime per mezzo dell’immagine in movimento, lo scrittore per mezzo della parola, e dei segni d’interpunzione): non comprendo perché mai si insista a chiamare gli scrittori a un lavoro, come quello cinematografico, che non può, e non potrà mai essere, il loro. Vuole, un regista, rivolgere un augurio davvero fraterno a uno scrittore? Si? E allora lo inviti, invece che a collaborare alla stesura delle proprie sceneggiature, e a esser più che mai scrittore, a essere il più possibile poeta in proprio, a esprimersi con assoluta e totale pienezza e libertà nella lingua che solo è sua. Le unioni, veramente felici e positive, non avvengono che nella uguaglianza dei diritti.
Un rapporto, che sia serio, tra cinema e letteratura, non può realizzarsi altrimenti.
(1965).
Testo tratto da: “Le parole preparate”, raccolta di saggi critici di Giorgio Bassani. Torino, 1966.
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