Intervista a Marco Paolini sul progetto “Fén”

Un'opera in ferro, legno, fieno e parole alla Biennale Arte 2013

Al termine della performance realizzata il 1° giugno, e che si ripeterà nel corso della Biennale con un fitto calendario d’incontri, Marco Paolini ci ha parlato dello spirito e degli obiettivi del progetto Fén.

NSC: Durante i monologhi di questo pomeriggio è emerso il tema della rivoluzione, del cambio di paradigma scientifico. Mi ha colpito il parallelismo tra questa prospettiva e la scelta di compiere delle azioni che siano al di fuori della logica della razionalità economica, del guadagno, come ad esempio quella di creare un covone. Perché una persona oggi dovrebbe fare un covone?

M.P.: Non lo so! Non gli voglio rispondere, ma io ho trovato chi lo fa perché gli piace, vuole prendersi cura di un posto e renderlo più accogliente. Diciamo che un covone è come mettere in ordine una stanza, solo che metti in ordine un terreno. Tagliando l’erba, ti prendi cura di renderlo accessibile, di permettere a qualcuno di venire a strofinarcisi la schiena. Io vorrei che fossero dei segni di ospitalità, ma anche di socialità. Infatti se vai a seguire come questa idea si sviluppa nel progetto che ho chiamato Fén (il sito è: [www.progettofen.wordpress.com->www.progettofen.wordpress.com], n.d.r.), davanti ad alcuni di questi covoni dove io riuscirò ad andare non farò degli spettacoli, come quelli che faccio di solito sul palco. Sarà qualcosa che è pensato per stare lì e per restituire, a chi ha pagato il fatto che io fossi là facendo un covone, l’ospitalità con un baratto, in qualche maniera. Aggiungi degli elementi che su un palcoscenico non faresti oppure dovresti fare con un altro linguaggio; invece come li ho presentati qua, ragionando, raccontando, ascoltando, correggendo, dai cittadinanza a un altro modo di stare insieme, e già di per sé questa cosa non è poco. Se in più hai la soddisfazione di fare qualcosa con le tue mani, di mostrarlo agli altri, qualcosa di cui puoi essere orgoglioso perché fatto a regola d’arte, puoi imparare a osare, a renderlo non un episodio di una velleità, ma una competenza, qualcosa in cui fai un tirocinio, compi un percorso di cambiamento di te stesso. Quindi prima di tutto quella rivoluzione la fai guardando a quello che sai fare tu o a come la pensi tu, non la pretendi da quello che ti sta intorno, cioè: non la fai facile. Già imparare a come non farla facile è un segno di solidità, che non è scontata nel tempo e nel luogo in cui viviamo.

NSC: Qui Baratta ha detto che davanti a un’opera d’arte cerca subito di capire se è un bluff. Questo tipo di teatro, mescolato all’arte senza voler stabilire un confine preciso, “serve” a qualche cosa? Che effetto produce sulle persone?

M.P.: A me serve, e in ogni caso cercherò che questo sforzo non sia inutile perché poi il lavoro in evoluzione diventa qualcos’altro, ma non sono in grado di valutarne l’utilità se non dalle facce della gente che è qua. Devi pensare a come hai reagito tu…

NSC: Io ho reagito bene!

M.P.: E in generale è così: è una sospensione nel momento, nell’attività di spettatore della mostra, ti fermi per un tempo anche breve e rifletti. Per me è un lusso poter avere un piccolo numero di persone con cui confrontarmi. Ed è diverso dall’essere sul palco, dove sei costretto a parlare a un grande numero di spettatori.

NSC: Questo progetto, Fén, continuerà, e come verrà portato avanti?

M.P.: Per adesso, da qui ad ottobre, è legato alla Biennale e a questi appuntamenti in giro, che sono indicati nel nostro sito. Invece non abbiamo ancora ipotizzato il seguito, perché aspetteremo di valutare, per vedere magari cosa riceveremo dalle cose che accadranno, impareremo anche noi.

NSC: E speriamo che continui.

M.P.: Anch’io, anch’io.

credit foto: Giacomo Bianchi