Intervista a Valentino Infuso

La compagnia TEATRO IN POLVERE presenta la sua nuova produzione Sushidio uno spettacolo (attraverso il cinema giapponese) di Valentino Infuso

«È una comica… una comica amara… in 7/3 – sottolinea il regista Valantino Infuso – Il sorriso è, a nostro avviso, il modo migliore per aprire gli animi all’intima riflessione sull’essere umano. I 7/3 fanno riferimento ad una delle innovazioni del cinema giapponese negli anni ’20, ossia il costante equilibrio tra l’aspetto comico e quello tragico delle storie, in un rapporto simbolico di tre minuti di lacrime per ogni sette di risate».

NSC: Qual è stato lo spunto originario, che ha portato alla nascita di Sushidio?

Il tatuaggio a forma di sushi della mia compagna, che è anche l’attrice dello spettacolo…a parte gli scherzi, il cuore del lavoro è incentrato su una riflessione: come accade che gli esseri umani arrivino a non riconoscersi più o anche a non riconoscere più se stessi.

NSC: A quale esigenza necessaria risponde uno spettacolo così intimamente legato ad un percorso culturale distante e atipico rispetto al nostro: il mondo nipponico e le sue pieghe di complesso spessore?

Il riferimento alla cultura nipponica è sicuramente un pretesto, ma non è un caso. Nell’ottica di mettere in condizione i due protagonisti di ri-conoscersi ancora una volta la dimensione spaziale migliore non poteva che essere un luogo culturalmente estraneo, dove anche il gesto più naturale, mi riferisco all’atto di mangiare, avviene in maniera alienante (immagino la frustrazione di un occidentale non abituato ad usare i bastoncini). La scelta poi di riferirsi al Giappone è dovuta ad una passione viscerale verso questo paese, ma attenzione: non ci riferiamo direttamente alla cultura pura giapponese, territorio troppo vasto e complesso come dici anche tu, bensì alla sua cinematografia. I due personaggi si rapportano tra loro e agiscono sotto la suggestione e la fascinazione del vivere alla giapponese, ma lo fanno attingendo direttamente dall’immaginario cinematografico e visuale nipponico. Basti pensare quanto per la mia generazione i cartoni animati giapponesi abbiano influito sull’immaginazione e, perché no, sull’inconscio…

NSC: Potresti ritrovare un’idea di fondo che dona continuità al tuo approccio registico?

Non amo definire il mio approccio di costruzione di uno spettacolo come “registico”. Il lavoro parte sempre da un’idea, una sensazione, e poi, lanciate le prime tracce drammaturgiche, si passa al lavoro con gli attori. È un po’ quello che faccio quando creo una nuova maschera, intaglio e intaglio il legno finché non emerge un volto che spesso può anche essere diverso dall’idea originaria, ed è fondamentale saper accogliere la necessità della materia al di là di quello che si era fissato nella mente. È quindi piuttosto un approccio da artigiano, dove anche il singolo gesto o parola, viene elaborata, sovrastrutturata e poi ridotta all’essenziale, oppure scartata e accantonata. Ecco, forse l’idea di fondo è quella del lavoro di bottega, da artigiano più che da regista.

NSC: Tra i riferimenti cinematografici e non presenti nel tuo spettacolo, quali maestri giapponesi hai tenuto maggiormente presente nella generazione dell’opera?

Ozu, Terajama, Miike e Kurosawa, in primis, ma poi anche Oshima, Mizoguchi, Masumura, Wakamatsu, Kitano, Tsukamoto… potrei continuare, ho visto quasi centoquaranta opere, dai primi film muti ai film in costume, dai roman porno degli anni settanta ai film di Godzilla… è un mondo visionario ed eterogeneo che trovo superlativo in tutte le sue declinazioni. Non è un caso se grandi maestri del cinema occidentale si siano lasciati fortemente ispirare dai loro colleghi nipponici, da Kubrick a Sergio Leone, da Wim Wenders a Tarantino.

NSC: Hai qualche progetto per l’immediato futuro?

Una vacanza… Ma prima ci sarebbe una produzione a Philadelphia (U.S.A.) per uno spettacolo di commedia dell’arte con attori europei e americani e la ripresa a Milano di un nostro amato spettacolo di qualche hanno fa, Teatro-Cucina, dove giochiamo un pò col cibo e le emozioni.

NSC: Una curiosità: hai un sogno che vorresti vedere realizzato, nel mondo teatrale di oggi?

Una revisione generale delle regole del gioco. Niente finanziamenti pubblici, e di conseguenza via tutte le assurde regolamentazioni, l’appesantimento strutturale di tasse e permessi che castrano l’attività teatrale pura. Non prendo niente dall’ente pubblico e pretendo di non dovere niente. Che ci mettano in condizione almeno del puro dialogo col pubblico. Oggi fare teatro in Italia è una partita persa in partenza, in un sistema dove invece di concentrarti sul lavoro di scena vieni risucchiato dalla burocrazia, per ricevere cinque di finanziamento pubblico ne devi spendere quindici per mantenere un meccanismo perverso… Finché il meccanismo resta quello attuale il sistema teatro non potrà mai autosostenersi, e in questo sta la sua debolezza.

NSC: Quale consiglio ti sentiresti di dare a chi vorrebbe intraprendere questa professione?

Di pensarci bene (ride)… ma sai non è un lavoro facile e non sempre ti ritorna quello che ci metti.. quello che potrei dire è: se sei preso dal fuoco allora vai e assecondalo.