Cosa succede quando si incontrano un grande maestro del cinema e alcuni famosi fotografi? Nasce un viaggio lungo l’opera di Roman Polanski come la mostra fotografica allestita nell’Aula del Tempio del Museo del Cinema di Torino con 128 foto scattate sulle scene di film di cui fu regista e talvolta attore.
Il visitatore ripercorre la sua filmografia dalle origini di Due uomini e un armadio a quella che per ora è la sua ultima opera, Oliver Twist datato 2005, passando per il film che lo consacra con il premio Oscar nel 2002, Il pianista.
È un itinerario nel tempo, dove si avverte l’evoluzione di un regista che ha sperimentato più generi, variando gli stili e toccando tutte le Nouvelle Vague occidentali, ma anche nello spazio per il suo peregrinare dai set europei all’America, per ritornare poi in Francia e con gli ultimi film al centro dell’Europa di cui era originario.
Oltre a documentare il regista, le foto parlano dell’uomo, confermando la potenza comunicativa delle immagini: a chi le guarda narrano sfumature del carattere e della sua vita personale.
Giovane entusiasta, la sua macchina da presa non si ferma davanti a nulla, e sfoggia pose rocambolesche mentre gira in una barca Il coltello nell’acqua o insegue a bordo di una due cavalli la battaglia in Macbeth; ancora coreografico in Frantic, tenuto da una corda a riprendere Emmanuelle Seigner mentre vola da un tetto ricostruito, perfezionista in Tess a ricomporre un covone di spighe nella campagna inglese. Film dopo film il giovane lascia il posto ad una pantera grigia del cinema internazionale, colpito duramente dalla vita, ma non per questo stanco di mettersi in gioco mentre gira Oliver Twist e insegue i bambini sui tetti o per la strada guidando in retromarcia.
Anche le foto variano di stile come il loro protagonista.
All’inizio è il bianco e nero, a documentare un Polanski giovanissimo sdraiato in accappatoio in una pausa di registrazione di Per favore non mordermi sul collo, film di vampiri dove recitava anche la giovane moglie, Sharon Tate. Sono foto di reportage a riprendere momenti durante la lavorazione di un film: è il ’68 quando negli Stati uniti gira uno dei più grandi horror di tutti i tempi, Rosemary’s Baby: il film è agghiacciante, ma sul set Roman è immortalato mentre osserva divertito Mia Farrow attonita davanti alla “Mia’s chart” dove ogni giorno verranno riportati i voti che il regista le darà quanto a motivazione, puntualità, attenzione, charme e memoria.
Poi le foto cambiano il taglio e commentano più che descrivere, sono arte più che storia: drammatica e nel contempo felice l’inquadraura durante la lavorazione de Il pianista in cui Polanski è seduto in mezzo alle valigie dei deportati abbandonate in ordine sparso, oppure cammina con Adrien Brody in mezzo alle uniformi, o ancora quando la sua giacca rossa si staglia in mezzo ai cappotti scuri delle comparse del lager, evocando un altro cappottino rosso nel bianco e nero di Schindler’s List.
Guardando queste immagini, è impossibile non pensare alla storia personale del regista che con questo film affrontò i suoi fantasmi: rinchiuso a sette anni nel ghetto di Cracovia gli venne uccisa la madre ad Auschwitz deportata dalle SS.
Coglie nel segno il ritratto conclusivo di un Polanski in primo piano, pensoso, sgranato in bianco e nero.