Venezia 67. Concorso
1844. Il Giappone si avvicina al termine dell’epoca Tokugawa, alla fine della lunga e gloriosa era medievale e alle porte di una tardiva e coatta entrata nell’era moderna.
Doi, consigliere anziano dello Shogun, si ritrova con una spinosa gatta da pelare: il fratellastro del generale, Naritsugu, inebriato dal potere, sta progressivamente perdendo il controllo.
Forte della sua arroganza, del suo senso di superiorità e del suo status di intoccabile, il nobile maltratta, insulta e trucida i suoi sudditi senza spillare una goccia di sudore nè mostrare un’ombra di rimorso. Doi chiede quindi aiuto al nobile Shinzaemon, samurai di alto livello e grande esperienza e che, come dirà il suo nemico nonchè ex compagno di dojo in seguito, “non è mai stato il più forte nè il più intelligente, ma è sempre stato il più tenace”. Compito di Shinzaemon è quello di radunare il maggior numero di valorosi guerrieri, aggirare la guardia di Naritsugu e assassinarlo. Questa è l’unica maniera di porre fine al suo periodo di terrore e, allo stesso tempo, non disonorare lo shogunato. Shinzaemon trova altri undici guerrieri fra vecchi compagni d’arme, vecchi allievi e dei ronin, gruppo a cui si aggiunge suo nipote Shinrouko. Shinzaemon rimpiange che l’era del fucile sia già giunta e che sia difficile trovare buoni spadaccini di quei tempi: meglio pochi ma buoni. La spedizione parte con lo scopo di deviare il convoglio di Naritsugu, quindi occupare un villaggio prima del loro arrivo, fortificarlo e preparare un imboscata letale. Il gruppo di assassini è pronto a morire per la giusta causa.
Benvenuti, ancora una volta, nel mondo di Takashi Miike, l’autore con all’attivo 82 film in 19 anni, il regista che riesce a mettere insieme nello stesso anno un film in costume dal respiro classico e dalla portata epica e il sequel adulto del supereroe più strampalato e sfigato del cinema. Ma se di questo personaggio incredibile si sono accorti anche dei produttori del calibro di Toshiaki Nakazawa (che ha ritirato l’Oscar per il miglior film straniero con Departures nel 2009) e Jeremy Thomas (britannico, esportatore e finanziatore di registi come Nagisa Oshima con Furyo e Takeshi Kitano con Brother) un motivo deve pur esserci. A livello triviale Miike è un artigiano prolifico, eclettico, malleabile, che riesce ad arrangiarsi con i mezzi che ha a disposizione ricavando sempre qualcosa di buono. A un livello più astratto e teorico Miike è riuscito a creare una poetica che ha smosso una nicchia talmente grande da non essere più tale, una poetica solo superficialmente del violento e del macabro. Più profondamente il 50enne regista di Osaka in poco meno di vent’anni di vertiginosa carriera ha toccato molte corde cinematografiche e ha attraversato la maggior parte dello spettro delle emozioni umane scegliendo, per indole, per denaro, per talento, per necessità, di non precludersi praticamente nulla.
In questo caso, guidato da un mostro sacro come Jeremy Thomas, Miike si avventura (questa volta seriamente dopo la puntata semi goliardica di Sukiyaki Western Django) nel jidaigeki (film d’epoca, solitamente ambientato nel periodo Tokugawa) chanbara (cappa e spada); una scelta certamente coraggiosa, dal momento che ogni film del genere viene a partire dal 1954, in Giappone e nel resto del mondo, immancabilmente accostato a un capolavoro come I Sette Samurai di Akira Kurosawa, sorta di film allo stesso tempo seminale e definitivo. I 13 Assassins di Miike in molte sfumature ricordano e omaggiano la pellicola del maestro giapponese. Se Toshiro Mifune, contadino sanguigno e combattivo, riesce a diventare il settimo samurai unendosi ai sei ronin, per diventare i 13 Assassins del titolo la sporca dozzina di Shinzaemon fa entrare nel gruppo un selvaggio brigante, abitante delle foreste, che come il bracciante di Mifune (ma in minor misura) porta scompiglio e un punto di vista diverso e più reale all’interno di una casta superiore e nobile come quella dei samurai.
Inoltre anche Miike dedica tutta la prima parte del film a un’intruduzione (più politica che sociale, com’era invece in Kurosawa) dai ritmi lenti e dilatati, dalle immagini curate, dalla chiarezza narrativa tale da non confondere nemmeno il più negato o inesperto spettatore occidentale. La brace coperta viene improvvisamente liberata e rinfocolata nella seconda, roboante parte del film in cui un piccolo villaggio si è trasformato in una trappola di morte per i 200 uomini di Naritsugu. Le regole di ingaggio del genere chanbara e del sotto sotto genere del “pochissimi contro tantissimi” sono piuttosto chiare e Miike le rispetta, evitando per una volta di ricadere nel suo vizietto e non abusando palesemente degli stereotipi di genere, attenendosi (con grande classe) ad alcuni dei clichè classici. Il risultato finale è un film rigoroso, solido, curato in cui Miike riesce a evitare il peggio, ovvero frustrare e rinnegare la sua filmografia, il suo essere come regista e il suo modo di fare come autore. Sotto la coltre da grande classico il cuore, l’istinto e le viscere di Takashi Miike sono presenti e pulsanti.
Titolo originale: Jûsan-Nin No Shikaku
Nazione: Giappone, Regno Unito
Anno: 2010
Genere: Azione
Durata: 126′
Regia: Takashi Miike
Sito ufficiale: 13assassins.jp
Cast: Kôji Yakusho, Takayuki Yamada, Yusuke Iseya, Goro Inagaki
Produzione: Sedic International, Recorded Picture Company, Dentsu, Shogakukan, TV Asahi, Toho Company, Yahoo JapanData di uscita: Venezia 2010