L’Avaro è proprio lui. Anzi, lei, Ermanna Montanari. È l’avaro per definizione: secco, triste, irrigidito, iroso, tedioso, paranoico, avido. È l’avaro che tutti conoscono, quello che passa da Molière partendo da Plauto, e, in fondo, arrivando fino a Verga: “Roba mia, vientene con me”.
La figura dell’Avaro è centrale nella trama, e lo è nella messa in scena, e questo fatto non è una semplice banalità. Il mondo de L’Avaro che il Teatro delle Albe, e la regia di Marco Martinelli, propongono sul palcoscenico, è un mondo potenzialmente pieno di elementi “altri”. C’è per esempio l’immobilismo dei personaggi di contorno, incapaci di sviluppare una condotta propria se non cavalcando (o venendo schiacciati da) quella del perfido Arpagone; e qui troviamo i due figli dell’Avaro, Roberto Magnani e Laura Redaelli, fenomenali nella scena iniziale: i due fratelli condividono il proprio astio verso il padre, ma una longa manu invisibile li schiaccia a sedere bloccando i ripetuti e simbolici tentativi di rialzarsi (o forse di alzarsi e basta).
C’è anche l’automatismo di vite abituate a ubbidire, schiavizzate dalla condizione subalterna – le cameriere robotiche e mute che spigolano passi nella dimora dell’Avaro; c’è la pochezza di chi, volontariamente e consapevolmente, immola la sua morale al soldo – la madre di Mariana, che si vende la figlia per un matrimonio buono; ma c’è anche lo sprizzo di ragionevolezza a fondo perduto di Mastro Giacomo (disilluso e quasi canzonatorio, molto efficace, Luigi Dadina).
Eppure, tutta questa sostanza impallidisce di fronte a lui, all’Avaro. È lui che incarna la causa e l’effetto. È lui che dà il senso alle esistenze di chi gli ronza attorno. E, ancora prima di lui, è la sua cassetta piena di lui, del suo denaro, che non a caso viene portata efficacemente in scena con delle lettere tridimensionali che formano la parola “casetta”: una s di meno, come a dire “quella cassetta è la casa, la dimora, il cuore, di tutta questa faccenda”.
Martinelli sa che tutto impallidisce di fronte all’Avaro, e allora sfodera un Arpagone che se li mangia tutti. E lo fa come lo farebbe un cannibale del 2000: con lo show.
Ermanna Montanari ingurgita nel suo personaggio una maschera alla Michael Jackson, diafana in volto, nera nei capelli e negli abiti, occhi truccatissimi che con autosufficienza pressoché totale potrebbero tenere la scena a suon di sguardi; afferra l’asta del microfono, da vera rockstar, e anche da vero imperatore – è quasi uno scettro, è quasi una masturbazione -, che la sua voce si deve sentire, deve sovrastare quelle di tutti gli altri; e per parlare, mangia l’aria invece di emetterla, come quel Gollum vorace che, nel signore degli Anelli, vive per il sui “tesssssoro”.
Avviene tutto in un’arena di quinte, con la scena che prima era piena di arredi; poi, a mano a mano che il pubblico si accomodava in sala, veniva svuotata. E allora si chiarificano le parole di Martinelli, che prima dell’inizio mi saluta dicendomi “ci vediamo dopo nell’arena”: certo, ogni palco lo è, ma questo di più. Perché qui c’è una lotta, c’è il sospetto, c’è la sfida. L’atmosfera è sospesa e tesa contemporaneamente, si cerca con le pile accese, nel buio più totale, di stanare i colpevoli.
Ed è qui che Martinelli sceglie di alleviare la tensione. Lui, Anselmo, irrompe dalla platea svelando la verità, mettendo tutto a posto, facendo vincere l’amore, e restituendo il maltolto (?) ad Arpagone. Insomma, un’iniezione di bontà non solo buona ma anche “alla buona”: come farebbe un bravo padre di famiglia, senza troppo stare a sofisticare, rassicurando tutti, sorvolando sulle polemiche. È Moliere che la fa finire a tarallucci e vino, e Martinelli la mette in scena perfettamente.
Sappiamo tutti che a vincere è stato lui, l’Avaro. Che quei tarallucci se li è mangiati lui e solo lui. E non è un caso che Martinelli, salendo sul palco del Teatro Goldoni di Venezia per i saluti, urli ad alta voce “Resistiamo gli Arpagoni di tutti i generi”. Poi, commovente, si inginocchia di fronte ad Ermanna Montanari, e le bacia il cuore.
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foto Claire Pasquier