L’anno scorso è stata la volta della famiglia. I vari Jarmusch, Dardenne, Wenders, portavano sullo schermo il percorso di una ricerca ideale delle proprie origini, del tentativo mai abbandonato di creare – nel caos – un ordine salvifico delle cose, un vuoto da riempire quasi con forza. L’enfant svenduto e abbandonato dei fratelli Dardenne lasciava spazio alla ricerca ossessiva di un improbabile figlio, inseguita da Bill Murray in Broken Flowers. E se Wenders giocava a rimpiattino coi fantasmi del passato (con lo Shepard cowboy di Don’t come knocking che torna a casa dalla madre, una Medea che lo uccide comunicandogli l’esistenza di un figlio), Haneke portava a compimento il suo film più maturo nascondendo il suo Caché con giochi di camera e riflessi cristallini. Un Festival con lo sguardo al passato, una riflessione sul cinema (e su chi lo guarda) in cerca delle sue radici. Gli esempi sono infiniti. Le verità nascoste di Egoyan giacciono in una famosa trasmissione degli anni cinquanta con due star televisive cadute nel dimenticatoio, o ancora il Lemming di Dominik Moll che scardinava le certezze quotidiane distruggendone la familiarità.
Quest’anno Cannes sembra aver cambiato rotta, così come il cinema, di anno in anno, ragiona e riflette su se stesso e sulle potenzialità del medium. La Palma d’oro di Ken Loach (ancorato ad un genere passatista ma ugualmente splendido) è l’esempio di come la guerra fra inglesi e irlandesi rimandi all’epoca in cui libertà e senso di sottrazione all’oppressione dominante risultano essere un tassello fondamentale per la democrazia dell’immagine. E contro la dittatura del consenso audiovisiovo. La libertà di Loach si respira anche nello splendido film di Guillermo Del Toro, il suo Labirinto del Fauno (ingiustamente snobbato dalla critica e presentato l’ultimo giorno di Festival) è un intreccio che si dipana fra la guerra civile spagnola e le qualità magiche e principesche di una ragazzina, unica capace di raffigurare il significato della democrazia (di tutte le democrazie), come avviene d’incanto dinanzi ad una folla plaudente nella scena finale. A parlare ancora di libertà è Les Amitiés Maléfiques, premio de La semaine de la critique a Emmanuel Bourdieu. La libertà intesa come un districarsi nei vincoli della scrittura, dalla creazione artistica che si attorciglia a sé, dall’autoreferenzialità, in un percorso che raggiunge la maturità artistica ripudiando – ma è proprio il ripudio a renderli indispensabili – i cattivi maestri.
E di libertà dagli schemi storici ci parla anche il rumeno A Fost Sau N-A- Fost, divertentissimo film (vincitore della camera d’or) di Corneliu Porumboiu, intento a raccontare (raccontando) la genesi e l’epilogo di una rivoluzione atipica e forse mai davvero esistita. E se diventa quasi un fatto privato (da evitare con cura) quello di applaudire al termine di ogni proiezione, non si perda di vista l’essenziale. Il cinema come gioco e come rapprresentazione. Una rappresentazione che merita, di tanto in tanto, qualche applauso di incoraggiamento.